Soundtrack: “Times they are a-changing” (Bob Dylan)

Ieri all’Odeon c’erano pure degli assenti eccellenti: i contrattualizzati. Ne avrò contati meno di una decina. Ma molto attenti, perchè qualcuno comincia a capire che la marea crescente presto investirà anche loro e che il problema della sopravvivenza è della categoria, non delle sue sottospecie.

Chi si ricorda come cantava il vecchio Zimmy nel 1964?
Riunitevi, gente, da ovunque veniate / prendete atto che tutto intorno il livello dell’acqua è cresciuto / e rassegnatevi: presto anche voi sarete bagnati fino all’osso…”.
Ecco, stanotte, ripensando alla convention fiorentina di ieri e l’altroieri su “Giornalismo e giornalismi” mi veniva in mente questa canzone.
Ma non perché – figuriamoci! – mi illuda che qualche rivoluzione sia alle porte o che il vento sia cambiato e che la categoria abbia di fronte a sé nuovi, luminosi, progressivi orizzonti.
Quando mai. Nel guano eravamo e nel guano resteremo. Anzi, le cose andranno sempre peggio e rapidamente.
E’ vero però che qualcosa sta cambiando sul serio: quelli che solo dieci anni fa ci guardavano con sufficienza dall’alto del loro posto sicuro e ben pagato e che appena cinque anni fa ascoltavano un po’ annoiati e un po’ infastiditi le nostre geremiadi, convinti di essere ben ancorati alla ciambella di salvataggio sindacale, ora cominciano a sentire un po’ d’umidità sotto le suole. E a guardare il dramma dell’altra metà della categoria, quella dei cosiddetti “non contrattualizzati”, con occhio diverso.
Insomma, principiano ad aver fifa: waters are growing quickly…
Le redazioni scricchiolano, le vendite calano, gli editori tagliano, la giungla del web incombe. Un numero sempre più alto di ex colleghi di redazione gli si materializza di fronte con gli occhi bassi ammettendo che, perso il posto, gli è toccato “riciclarsi” da free lance. E che è dura. Anzi, è proprio una vita di merda. E, ma come, non mi fai lavorare? Ma come, siamo stati dirimpettai di scrivania per tanto tempo e non mi offri più di quella miseria che a lungo abbiamo, menefreghisticamente, dato come obolo a quei poveracci che, con una punta di disprezzo, chiamavamo “i collaboratori”? Certo, non l’avrei mai detto. E come faccio col mutuo, le rate della macchina, la previdenza integrativa, le ferie che non ci sono più e nessuno me le paga?
Qualcuno l’ha già acutamente notato: escluso chi era lì per servizio, i “garantiti” ieri a Firenze erano cinque o sei su trecento presenti.
Pochi, troppo pochi certo.
Ma l’inquietudine serpeggia, il tarlo della paura si insinua.
Molti erano assenti non perché disinteressati, ma perché voltarsi dall’altra parte e far finta di non vedere è il modo più facile, anche se codardo, per dribblare i cattivi pensieri.
E poi, sorpresa: abbattuto il filtro della gerarchia, può essere imbarazzante trovarsi di fronte colleghi di nome, ma che fino a ieri non consideravi tali di fatto, che liberi di parlare ne sanno (a volte) più di te, pensano più di te, scrivono meglio di te. Sono pure incazzati. Perfino vendicativi.
Ecco, la presa di coscienza, la crepa che si è aperta nel muro di certezze che fino a ieri aveva protetto le coscienze di certi contrattualizzati e il loro paternalistico sussiego è un altro dei grandi risultati della due giorni di Firenze. Un sonoro e pesante colpo di maglio alla torre d’avorio dei garantiti senza se e senza ma.
E chissà che il campanello d’allarme non li abbia risvegliati anche su un’altra evidenza a tutti chiara, tranne che a loro: il “loro” sindacato non capisce e quindi non può tutelare più nessuno. Nemmeno loro. E’ un sindacato distante dalla professione reale, immerso fino al collo nella sua cronica geriatria e nelle sue camarille politiche da basso impero. A nulla valgono le tante buone individualità che qua e là affiorano dalla palude federale. Nessun pesce può sopravvivere nell’acqua stagnante, tranne i rospi, quelli che gracidano da decenni gli stessi slogan e si fanno fare il coro dalle rane.
Insomma, il livello che è salito fino a far affogare tanti giornalisti ed è ormai alla gola di molti altri, ora è arrivato anche alle loro caviglie.
Solo che non è acqua: è liquame. E starci dentro non è una bella cosa.