Appunti sparsi dalle vie della capitale della Bosnia Erzegovina, nel ventennale del tragico assedio. Dove il migliore antidoto al “turismo postbellico”, che retoricamente la pervade, è assecondarlo. Perchè chi viene, vede. Chi vede, pensa. E comunque tutto serve a rompere l’ibernazione istituzionale.

Passeggiando sotto la nuvolaglia cangiante del cielo novembrino di Sarajevo viene da pensare che, qualunque opinione si abbia di lui e del suo celebre libro, Eric Hobsbawn si era sbagliato. Di almeno quattro anni.
E che il Secolo Breve non solo sia nato qui il 28 giugno del 1914, con l’attentato mortale di Gavrilo Princip (nome profetico per un principicida, no?) a Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono imperiale dell’Austria-Ungheria, da cui ebbe di fatto inizio la Prima Guerra Mondiale. Ma che qui il Novecento si sia anche concluso: nel 1996, con la fine del sanguinoso assedio alla città iniziato quattro anni prima.
Chiudendo così un cerchio al centro del quale la capitale della Bosnia Erzegovina funge da culla e da cenotafio.
Oggi, nel ventennale dell’inizio di quell’assedio, mentre le acque della Miljacka scorrono basse e veloci sotto le arcate del Ponte Latino, proprio di fronte al punto in cui lo sfortunato arciduca cadde sotto i colpi dell’attentatore, è difficile sottrarsi alla tentazione di riflettere su ciò che la memoria ti suggerisce e su ciò che, viceversa, gli occhi ti mostrano. Mondi diversi, a volte opposti.
Quella che annuso intorno a me è una città cui la patina indelebile e tragica del passato sembra più cucita addosso dalla lucrosa retorica della memoria e dalle (comode?) pastoie di un’impasse politica apparentemente senza fine, che non dalla realtà quotidiana.
Dalla finestra del mio albergo vedo la mole bianca e incombente della grande moschea di Ghazi Husrev Bey. Anche di notte, illuminata a giorno. Sento perfino i richiami dei muezzin. Più in basso, per strada, un anziano discute animatamente sulla porta di un negozio di masserizie che espone orgogliosamente il suo campionario di pentole, coperchi, fornelli e canne fumarie. Lo sporto accanto è chiuso, ma l’insegna è nuova e inalbera una scritta che, nella patria riconosciuta degli jugonostalgici, è tutto un programma: Nostalgija. Scoprirò poi che vende solo anticaglie.
Alzo lo sguardo e scruto le alte colline di fronte, sulle quali la capitale della Bosnia Erzegovina si inerpica tra quartieri di periferia, aree residenziali di variopinte villette, alberi in pieno foliage, cuspidi di minareti. Esclusi questi ultimi, penso, potrebbe essere uno scorcio di Torino. Noto un grande giardino erboso punteggiato di sagome bianche. Era il Parco del Leone, il più bello della città, mi dice un’amica dell’Oxfam (qui). Ora è un cimitero, però il nome gli è rimasto. Ci sono sepolti la Giulietta e il Romeo bosniaci, due fidanzati, i presunti primi caduti della maledetta guerra.
Scendo, ma per quanto mi guardi attorno cercando di percepire ciò che i racconti, i depliant turistici e perfino i poster e i souvenir cercano di suggerirmi, non avverto l’annunciata cappa mortale.
Per le vie del centro la vita fluisce ordinaria, in una curiosa atmosfera che sovrappone il compassato ritmo balcanico al passo lento dei musulmani. Su tutto regna un’aura di imbarazzante normalità. Donne con la testa coperta e stangone in minigonna. Pensionati col sacchetto della spesa. Gente comune. Qua e là spirano perfino sobri venti di futuro (hanno appena ricostruito e restaurato l’ex sede monumentale dell’Istituto Orientale, che conteneva una delle più ricche collezioni di manoscritti orientali d’Europa, distrutta dalle bombe serbe) e fugaci scorci fluviali dal vago sapore parigino.
Immagini che fanno a pugni con certi dolenti reportage.
La verità è che il tempo passa. E che, se non guarisce, lenisce. Si stratifica, esattamente come sulle persone. La Sarajevo che fu ferita quasi a morte ha attraversato una lunga convalescenza e oggi si porta addosso vaste cicatrici. Ma le ferite hanno smesso di sanguinare, casomai sono le giunture che dolgono: un po’ per le antiche battaglie, un po’ per gli acciacchi dell’età.
Poichè però i ricordi non si cancellano, ben venga allora un po’ di cartapesta se serve a far vendere agli albergi qualche pernottamento e alle bancarelle qualche gadget in più. Ben vengano i finti reduci pronti a mostrare ferite posticce e gli scaltri operatori che organizzano il richiestissimo “tour dell’assedio“. Da una città che fu sì colpita quasi a morte, ma che due decenni dopo è pure ben guarita. E che dà la sensazione di essersi lasciata alle spalle, sebbene con postumi fatali, tanto quelle piaghe quanto la successiva convalescenza. I cui segni finiscono per somigliare, cogli anni, sempre più ai reumi dell’età che alle fitte delle schegge.
E se non fosse per le famose chiazze d’asfalto dipinte di rosso, sparse qua e là (le chiamano le “rose di Sarajevo” e segnano le buche lasciate dalle granate sulle strade cittadine), o per i buchi della mitraglia stampati sulle facciate di qualche palazzo, concretamente non è rimasto molto di quella guerra.
Lo spirito è un’altra cosa, ma quello non può essere scandagliato.
Benvenuti a Sarajevo, dove nonostante tutto lo spirito di chi la abita è molto più lieve di quello di chi arriva a visitarla.