FREELANCE, PRECARI, COCOCO, LIBERI PROFESSIONISTI e EQUO COMPENSO. Commento 2 su 4 all’ultima sessione, dedicata ai giornalisti, degli Stati Generali dell’Editoria. Della serie: la confusione concettuale genera mostri (poveri).

 

Cominciamo col dire, ascoltando le parole conclusive del sottosegretario, di aver avuto la riprova che, con un magnifico spirito autolesionistico degno del mitico Niccolai, siamo riusciti a dare a Crimi qualche ragionevole argomento anche su un punto sul quale non avrebbe dovuto averne e tantomeno riceverne da noi: il cosiddetto lavoro autonomo.

Ovvero quel mare magnum in cui sguazzano, in allegra confusione concettuale collettiva, le tante figure “anomale” della nostra professione. Tanto anomale da costituire però, oggi, la stragrande maggioranza della categoria: precari, freelance, cococo e liberi professionisti.

Gli ultimi, ai quali mi ascrivo, innanzitutto si rassegnino: nel nostro stesso interesse, per autoqualificarci è d’ora in poi necessario, anzi indispensabile, come da anni vado scrivendo, smettere di usare il termine freelance. Con il quale, appunto per un evidente e tuttavia assimilato errore concettuale, tutto il resto del mondo intende ormai “giornalista monomandatario o quasi, pagato a pezzo ma che aspira ad essere assunto” e non libero professionista strutturato che l’autonomia o precarietà che dir si voglia non la subisce, ma l’ha scelta.

Ha provato a spiegarlo agli Stati Generali, in un’assemblea però ormai stanca e tutta presa dalla guerriglia dialettica correntizia, l’intervento di Simona Fossati. La sensazione è che si sia trattato di acqua in mare: sia perchè la Fossati era stata preceduta da altri interventi di “partite iva” per ripiego e da copiosi riferimenti a giornalisti “pagati 10 euro a pezzo” (vedi subcategorie sopra elencate), sia soprattutto perchè alla fine il sottosegretario ha chiosato la questione del lavoro autonomo con parole che sintetizzo qui sotto (per il dettaglio vedere il video) e che desolatamente scolpiscono la realtà percepita (in verità non solo da lui)

Parole che, anche sotto altre spigolature meritano comunque un’attentissima riflessione.

Se tra i giornalisti esistono ancora i cococo, figura che è stata abolita, è perchè c’è l’OdG, ha detto senza mezzi termini  Crimi. “La legge infatti consente l’esistenza dei cococo per quelle professioni che hanno un ordine professionale. Se c’è un ordine professionale, significa cioè che esso riunisce professionisti i quali, in quanto tali, necessitano di flessibilità. L’anomalia del sistema, insomma, siete voi: avete sì l’OdG, ma lavorate come dipendenti. E poi c’è il fatto che i giornalisti, nel senso di quelli col tesserino, sono appena il 10% di coloro che “fanno giornalismo” in senso lato. Siete voi stessi a confermarmelo, chiedendomi di allargare la platea dell’Inpgi, cioè l’ente di previdenza dei giornalisti, a profili che giornalistici non sono, come i comunicatori, cioè quelli che il giornalismo lo fanno senza tesserino. Se le cose stanno in questo modo, significa che l’OdG così com’è è superato. Non perchè io ce l’abbia con l’Odg, ma perchè lo dimostrano i fatti“.

Ora, togliamoci dagli occhi prosciutto e pregiudizi: sotto il profilo logico, Vito Crimi non ha tutti i torti. Nell’esercizio della professione regna da decenni il caos. Da una parte, la classe degli assunti è in caduta libera e del resto nulla vieta, checchè ne dica il nostro sindacato da operetta, di fare giornali ricorrendo ai soli collaboratori. Costoro però si suddividono però, poi, in un ginepraio inestricabile di abusivi, stagisti, cococo, false partite iva, precari, liberi professionisti, etc con esigenze e aspirazioni diverse, spesso opposte. Dall’esterno, la loro figura è inoltre attaccata da blogger, influencer, comunicatori privi di qualsiasi abilitazione e deontologia professionale, ma che non di rado trovano spazio e retribuzioni sulla stampa ben più dei giornalisti “col tesserino“.

Eppure non c’è dubbio che la specificità, direi anzi la singolarità della professione giornalistica in ogni sua declinazione (per fortuna da qualcuno ripetutamente reclamata agli Stati Generali: grazie!), non sia compatibile con un allargamento della base a figure extragiornalistiche, in un ente controllato e gestito dai soli giornalisti e dalle loro organizzazioni come l’Inpgi. Quindi o, come dice Crimi, si allargano (si demoliscono, si ristrutturano, si aboliscono…) quest’ultime, leggi OdG, o la categoria deve restare previdenzialmente separata dal resto. E nel mezzo rimane sempre e comunque l’aporia dell’Inpgi 2, ente che viceversa trabocca di risorse ma che paga, anche ai liberi professionisti con fatturati più che dignitosi, pensioni simboliche, per non dire ridicole, da 300 euro al mese. Nell’Inpgi2 confluisono infatti tutti i variegati pesci del mare magnum: appunto freelance, precari, pubblicisti, liberi professionisti, cococo, etc. ovvero il famoso 70%.

Così si ritorna al punto di partenza.

Il problema, in definitiva, mi pare il solito: tutti hanno le idee confuse. Il sottosegretario non si rende conto che il 70% dei giornalisti non è dipendente, il sindacato invece lo sa ma da sempre pensa solo al proprio orticello di potere politico senza rendersi conto di rappresentare (tra non iscritti e non tutelati di fatto) appena il 10% dei giornalisti, l’Odg,  anzichè alzare le barriere e asciugarsi in uno zoccolo duro fortemente professionalizzato, continua a sfornare disoccupati e illusi tesseromuniti, infine i giornalisti di ambo gli elenchi e di tutte le specie, gli assunti convinti dell’eternità intoccabile e garantita del posto fisso, i secondi della prospettiva di un’assunzione al termine di precariati decennali, i terzi di rimbalzi reddituali lontani da venire, i quarti preoccupati di mantenere status e tesserino perchè tanto campano d’altro e così via, che vagolano alla ricerca di un’identità. Sullo sfondo, lo sconforto degli esodati espulsi dalla professione e il bengodi dei pensionati che invece continuano a lavorare da autonomi nei giornali in cui erano redattori, con un certo nocumento al ricambio generazionale.

In questo contesto fluttuano editori che più o meno furbescamente hanno usato contributi statali e stati di crisi per abbattere il costo del lavoro e quindi l’occupazione giornalistica, anzichè aumentarla, e un equo compenso che, ridotto a strumento per giochini interni tra istituzioni e parrocchie giornalistiche, aleggia come un fantasma in attesa della riconvocazione della più volte evocata commissione. Nelle more, il paradosso di una professione ordinistica, la nostra, che però si dilettantizza ogni giorno di più perdendo uno dopo l’altro i connotati della professionalità.

La domanda allora è: su quali basi di comprensione dell’equo compenso e dello stato della professione la commissione medesima discuterà dell’argomento?

E quando se ne parlerà? Forse durante i tempi supplementari degli Stati generali che Vito Crimi ha sommessamente prospettato per settembre?

Ci leggiamo alla terza puntata.

(2/continua)