Ieri era il Record Store Day, cioè il giorno dedicato ai negozi di dischi tradizionali, quelli dove la gente andava, compulsava, comprava i vinili (ma anche i cd, alla fine) dopo lunghe meditazioni, dissertazioni, letture di libri e riviste e chiacchiere con altri appassionati presenti. Il negozio di dischi era uno di quelli che si chiamavano “luoghi di aggregazione”. Scuole di vita, in altre parole. Ritrovi formativi. Cenacoli, perfino. Capaci di incidere per sempre sulla personalità delle persone che li frequentavano con costanza.
Essi appartengono a un tempo passato perchè non è solo mutato il mercato che dava loro origine, ma l’oggetto stesso, cioè il supporto musicale, e direi perfino l’approccio alla musica e addirittura il ruolo della musica medesima nella vita della gente.
Il negozio di dischi, oggi, è invece prevalentemente un posto per nostalgici, cioè per chi, una volta, quei locali li popolava e ne apprezzava l’irripetibile atmosfera.
L’altro giorno (pare fuori contesto, ma non lo è) con dei colleghi si parlava della necessità generale di salvare le botteghe tradizionali.
Io, che di esse sono un teorico sostenitore, eccepivo però che per definizione il commercio ha senso finchè vive e che, se si essicca il flusso commerciale che lo genera e lo sostiene, cioè la domanda, esso perde la propria ragione di esistere.
In altre parole: sono il primo a frequentare i negozi tradizionali se essi, a prezzi ragionevoli e con un servizio ragionevole, mi danno certi prodotti che desidero ma restano “normali”.
Se viceversa quei prodotti che cerco hanno un mercato ormai così ridotto da essere ristretto ai “maniaci” o, per la stessa ragione, i prezzi sono così alti da essere sostenibili solo dai “maniaci”, la nozione di negozio normale dove uno entra, sceglie e semplicemente compra, è finita.
Il negozio non è una boutique, è la boutique ad essere una tipologia (molto ristretta) di negozio.
Non a caso, per tornare ai dischi, gli unici esercizi che sopravvivono sono quelli che vendono oggetti ormai non fungibili come i dischi rari o almeno il vinile usato. In sostanza, cose che non si producono più. Oppure che, per assecondare il mercato di nicchia degli amanti del vinile, sono prodotti in numeri limitati e escono a prezzi da appassionato, cioè impensabili e insostenibili, in proporzione, per chi una volta comprava gli lp nel negozio tradizionale allo scopo di ascoltare la musica e non di possedere il disco in sè.
Allora mi chiedo se la giornata celebrativa debba davvero essere dedicata ai negozi di dischi e non, viceversa, alle persone che li frequentavano, cioè gli ultimi ed unici testimoni di una temperie di cui il negozio era il contenitore, ma di cui la parte più importante erano prima le persone, poi i dischi, quindi ciò che li teneva insieme e soprattutto quel ruolo di quotidianità emotiva che, come accennato sopra, la musica non ha più.