Saranno l’età o le circostanze, ma a un certo punto si realizza che non c’è nulla di meglio dell’abitudine quotidiana di un po’ di r’n’r la mattina presto, subito, col caffè in mano. E poi chiedersi perchè avevi smesso.

 

Coll’evolversi della vita si tendono a perdere, e poi piano piano a dimenticare, certe abitudini giovanili (e anche non, ma comunque andate disgregandosi per effetto delle pressioni delle nuove, presunte, urgenze quotidiane) che ai tempi non eravamo abbastanza saggi per classificare come “buone” a prescindere, ma che, senza che ce ne rendessimo conto, avevano invece, con ogni evidenza, un effetto incontestabilmente taumaturgico e perfino propedeutico della bontà della giornata incipiente.

So che si tratta di un’abitudine tipicamente generazionale, circoscritta cioè ai nati tra il 1950 e il 2000, ma questo non toglie nulla al suo valore e alla sua efficacia.

Mi riferisco a quel bisogno impellente, a una sorta di riflesso condizionato spesso annunciato da insonnie, dormiveglia o addirittura sogni, di accendere il giradischi appena svegli, cioè subito dopo essersi alzati.

Non la radio, sottolineo, che fa partire la musica a caso, ma proprio il giradischi, ovvero il più macchinoso degli strumenti. E che implica una sequenza di gesti preventivi, consecutivi e necessari, come accendere l’amplificatore, mettere mano allo scaffale, scegliere il disco, metterlo sul piatto, far calare il braccio e dargli il via.

Finchè ho potuto, finchè cioè ho fatto una vita che me lo permetteva (senza che fosse un lusso, bensì solo una semplice circostanza), ho praticato quest’abitudine per almeno un quindicennio, ricevendone benefici indicibili. Poi fatalmente ho diradato, pur nell’intima convinzione (come si fa quando si smette di fare uno sport) che “ricomincio quando voglio“. E infine, senza nemmeno accorgermene, ho cessato del tutto, accecato da tante,  sciocche, nonchè impellenti, priorità.

Nel tempo, con timidezza, ho pure provato a ricominciare. Ma ogni tentativo è naufragato al cospetto di stili di vita mutati, di telefonate, di uscite di casa anticipate, di campanelli che suonano, di gente intorno che interrompe il flusso di musica-lavoro-pensieri che il privilegio di avere un giradisci acceso comporta.

Stamattina però, di colpo, mentre col sole ancora nascente sorbivo il primo di tanti caffè, ho realizzato con stupore di aver inconsapevolmente coronato (grazie o a causa dell’accumulo degli anni, ahimè), sebbene riveduto e tecnologicamente corretto, uno dei massimi desideri della mia adolescenza: avere un “giradischi” in ogni stanza della mia casa, o almeno una coppia di altoparlanti collegati col giradischi di un paio di stanze accanto. Vantaggi indiretti della riesumazione di vecchi impianti stoltamente mandati in pensione troppo presto.

E così ho fatto quanto segue: colla tazzina in mano sono andato allo scaffale più vicino, ho acceso l’ampificatore, mi sono avvicinato ai molti metri di titoli inscaffalati in bell’ordine, ho aguzzato la vista per leggerne i titoli, ne ho scelto uno, l’ho tolto dalla busta frusciante, l’ho messo sul piatto, tic della puntina del solco.

Nel frattempo il sole era sorto, ma la luce migliore me l’ha data, e non ne dubitavo, il rock and roll

Eccola: Tracy Bryant, “Looks like gold