Pubblico, senza commenti, la condivisibilissima riflessione dell’amico e collega Stefano Fabbri, sulle magre prospettive del giornalismo. Unica aggiunta: quanto dice vale, pari pari, anche per chi assunto non ha mai voluto esserlo, cioè i freelance come me.
Scrivo a te, giovane amico che sei all’ultimo anno di liceo o all’università, o appena laureato o già trentenne e tieni nel cassetto il sogno di fare il giornalista, oppure lo stai già facendo o stai cercando di farlo tra mille difficoltà. Ti scrivo per chiederti scusa a nome di chi non la chiederà mai. A nome di tanti giornalisti come me che, spesso più per la contingenza delle cose che per capacità, sono riusciti (con sacrificio, certo) a fare il mestiere più bello del mondo in condizioni all’inizio quasi invidiabili e ora appena passabili e che se ne sono fregati di quelli che potevano venire dopo.
Ti chiedo scusa a nome di quelli che, come me, potevano fare qualcosa e non l’hanno fatta, o non ci sono riusciti, perché le cose andassero diversamente. Per una intera categoria che ha espresso, salvo rarissime eccezioni, dirigenti sindacali e degli altri organismi di categoria non all’altezza, nella migliore delle ipotesi, e, nella peggiore, alla ricerca di riconoscimenti personali e di piccoli e grandi poteri. Ti chiedo scusa anche perché una visione camarillesca della vita professionale ha evitato di produrre vero rinnovamento, ma al massimo ha creato qualche tuo coetaneo o poco più, convinto da una manciata di voti o da mezzo grado di essere uno dei ragazzi della via Paal o ancora un adolescente che ha trovato sotto l’albero di Natale il cappello, la paletta ed il fischietto da capostazione. Ti chiedo scusa a nome di tutti questi, anche se loro non lo vorranno, così come dei caporali di giornata che spesso abitano nelle redazioni, più adusi a deridere e tiranneggiare che ai insegnare. Ti chiedo scusa perché per colpa loro e mia tu non farai mai il giornalista non dico nelle stesse condizioni in cui lo abbiamo fatto finora, ma neanche in una situazione lontana parente di esse.
In questo che passerà probabilmente alla nostra piccola storia come il giugno più amaro della categoria sono stati firmati un accordo sull’equo compenso e un rinnovo del contratto di lavoro che tagliano, entrambi, speranze e futuro. Il primo è semplicemente basato sul principio negrierio che più lavori e meno ti pago. Il secondo sull’estensione della precarietà attraverso un uso massiccio del ricatto dei contratti a termine ai quali affidare la speranza e i necessari due pasti al giorno. Ce n’è anche per noi vecchi. E non tanto per il tramonto dell’indennità “ex fissa” sulla quale legittimamente qualcuno aveva costruito magari un piccolo sogno per i figli e i nipoti: personalmente avevo capito che prima o poi qualcosa sarebbe successo (però non mi dimentico che quei soldi sono miei, li ho pagati io). Per noi più attempati c’è di più grave la prospettiva di un se possibile ancor più profondo conflitto generazionale: saremo inseguiti e cacciati dagli editori attraverso l’uso di un esercito salariale di riserva costituito da colleghi ai quali viene tatuato sulla pelle il motto “mors tua vita mea”. Noi forse ce lo saremo meritato, ma questi nuovi (e pochi “fortunati”) gladiatori non si meritavano questo. Sono giovani e non meritavano uno stile di vita improntato all’omicidio professionale prima nei confronti dei vecchi e poi, subito dopo, dei loro stessi coetanei. Ma è la politica del carciofo seguita da anni dagli editori, a nome dei quali però non posso chiederti scusa. Essi fanno il loro mestiere ed è tragicamente normale che cerchino di risolvere il conflitto a loro favore. Meno normale è che qualcuno di noi, troppi di noi, o meglio pochi lasciati fare dai tanti, li abbiano aiutati in questo.
Tra non molto tempo, spero molto poco, lascerò questa professione e nessuna eredità, per fortuna. Per me, che non ho avuto padri, madri o nonni giornalisti, non è stato facile pregare la sera perché mia figlia non fosse fulminata dal sacro fuoco di voler fare questo mestiere. E’ triste dirlo, ma quando ha fatto una scelta diversa mi sono felicitato con me, con lei e con la sua mamma giornalista. Ma un consiglio anticipato, visto che ancora sono qui, te lo lascio volentieri: le nostre organizzazioni di categoria non sono buone o cattive a prescindere. Ho sempre storto il naso di fronte all’Ordine e poi mi sono reso conto che, alla fine, è l’unico che ha tentato una resistenza, ha cercato di guardare oltre, di dire la sua anche a rischio di invadere il campo. Al contrario, mi sono impegnato personalmente nel sindacato, ho fatto poco e con scarsi risultati nonostante abbia sacrificato il mio raro tempo libero, il lavoro e la famiglia, e oggi lo vedo e lo sento lontano, distante. A ricordarmene i fallimenti anche in questi miei ultimi scampoli di ruolo, assicurati con un supplemento di fatica più per non creare ulteriori problemi che per altro, ci sono i tanti colleghi disoccupati dopo la chiusura delle loro testate che non siamo riusciti a difendere. Per questo ti dico: non ti affezionare alle sigle e ai nomi, alla storia e alle storie. La stagione che si prepara per te e per tutti quelli che hanno sciaguratamente in animo di fare il giornalista sarà senza esclusione di colpi e per questo le armi che ti serviranno potranno essere vecchie o nuove, ma dovranno funzionare e a impugnarle dovrai essere solo tu, senza lasciarle in mano ad altri.
Grazie per la pazienza di aver letto fin qui. Ma ora, se davvero tutto quello che ho scritto non ti ha convinto a cambiare i tuoi progetti, non mi resta che augurarti buona fortuna. Ma almeno fai che quando tra qualche anno ti chiederanno cosa fai nella vita e risponderai “il giornalista”, la seccante replica non sia: “Si, si’, va bene… Ma di lavoro…?”.