Nata dai Gonzaga, approdata via Asburgo ai Piccolomini e unitasi nel ‘700 a quella degli Spannocchi, la collezione senese trova una sede finale al Santa Maria della Scala. Quattro secoli di collezionismo, da Lotto a Duhrer, che sono anche un messaggio politico.

 

Esistono almeno tre ragioni per parlare della Collezione Piccolomini Spannocchi.

La prima e più ovvia, ma non meno importante, è che la raccolta ha finalmente trovato una collocazione museale permanente in quella sorta di scrigno incompreso che è l’ex Spedale di Santa Maria della Scala di Siena. La seconda è che la storia e il valore della collezione sono non solo importanti sotto il profilo strettamente artistico, ma sono in qualche modo simbolici del flusso di invisibili destini che spesso le opere d’arte e i loro insiemi seguono, come fiumi carsici, nel corso dei secoli. La terza è che la nuova sistemazione pare la tappa e il sintomo di una nuova, più moderna e lungimirante strategia di valorizzazione dell’offerta culturale della città di Siena. Una città sulla quale gli effetti nefasti della crisi politica ed economica dell’ultimo decennio, nonchè un’idea a volte provinciale della promozione turistica, hanno picchiato duro in termini di appeal, portando a riscossione, tutte e contemporaneamente, le copiose cambiali firmate con troppa allegria nel passato.

Nel Seicento le collezioni dei Gonzaga erano custodite nel Palazzo Ducale di Mantova, da lì passarono alla corte tirolese degli Asburgo e la città di Trento e da qui, grazie ad alcuni membri della famiglia Piccolomini, a Siena agli inizi del Settecento. L’unione della casata con quella degli Spannocchi, avvenuta nel 1774 con il matrimonio tra Caterina Piccolomini e Giuseppe Spannocchi, unificò le due famiglie e le rispettive collezioni. La donazione alla Città di Siena risale al 1835.

Le ricerche sulla collezione, ampliate in vista dell’ operazione di valorizzazione e riunificazione (le opere erano disperse tra vari musei e istituzioni senesi, nonchè la Galleria degli Uffizi), hanno portato alla luce novità che consentono oggi, a più di quarant’anni dai primi studi, di avere un quadro molto più chiaro sugli eventi, sull’intreccio delle vicende familiari, sul percorso dalle opere.
L’allestimento dei 165 dipinti torna così ad essere un nucleo unico dopo più di un secolo, con nomi come Lorenzo Lotto, Giovan Battista Moroni, Paris Bordon, Sofonisba Anguissola, Giuseppe Cesari, Giovanni Antonio Bazzi detto Sodoma, Albrecht Dürer, Otto van Veen, Albrecht Altdorfer, Peeter Snayers e Domenico Beccafumi (suoi i cartoni preparatori per il pavimento del Duomo di Siena).

A margine di questo c’è il fatto che, senza costituire un’attrazione nell’accezione mercantile che troppo spesso ha contraddistinto, con mere finalità turistiche, a Siena e non, le scelte espositive, la collocazione permanente dell’importante collezione all’interno del grande contenitore del Santa Maria della Scala rappresenta, a modesto parere di chi scrive, una decisione azzeccata. Per il motivo, solo in apparenza banale, che disseminare la città di poli artistico-culturali da un lato non effimeri e dall’altro diversi da quelli fin troppo abusati della vulgata propagandistica non può che giovare a ricreazione dell’immagine sobriamente attraente purtroppo perduta da alcuni decenni.

Per capire come mai la collezione merita di essere visitata, darò qui un solo esempio-consiglio: soffermatevi sulla Natività di Lorenzo Lotto e fatevi spiegare da qualcuno che ne sa le espressioni e i simbolismi ivi contenuti. Sarà un viaggio affascinante.