E non ho mire di “carriera”? Semplice: perchè questo sindacato, non unitario ma unico per suoi tornaconti di potere, pretende di fare il bello e il cattivo tempo per tutti. Anche, appunto, per i non soci, cioè la stragrande maggioranza dei colleghi.

Qualcuno con il sorrisetto di chi crede di cogliermi in fallo, qualcun altro con l’espressione di chi, davvero, non si capacita, mi chiede e si chiede il perchè del mio “tanto impegno” nelle questioni sindacali che stanno tenendo banco tra i giornalisti negli ultimi mesi, visto che da tempo ho stracciato l’inutilissima tessera dell’Fnsi (della quale ero assai critico anche quand’ero dentro). “Se non sei socio, che t’importa?“, dicono gli uni. “Che diritto hai di impicciarti?“, insinuano più maliziosamente certi altri.
Rispondo innanzitutto che certe questioni durano da anni, con grande nocumento collettivo, e non da mesi. E il fatto che molti colleghi se ne accorgano solo ora non è un buon segno.
Ma venendo alle domande, rispondere è facile.
Purtroppo in Italia c’è un solo sindacato dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa. Funzionava e ha funzionato fino a quando la categoria era costituita al 90% da lavoratori dipendenti. A difesa dei quali l’Fnsi ha lavorato per decenni talmente bene da spuntare spesso condizioni di vantaggio prossime al privilegio. Beato chi ne ha beneficiato e peggio per le aziende editoriali che le hanno sottoscritte, scavando così una parte della propria fossa economica (il resto lo hanno fatto da sole e gli è riuscito benone).
Come tutti i sindacati, l’Fnsi tira acqua al suo mulino. Il che consiste innanzitutto nel mantenere la struttura, assicurandone l’apparente indispensabilità, e nel gestire l’amplissimo potere derivante dal gioco di sponda a lungo fatto con l’Ordine, in un poco virtuoso scambio di poltrone, intese, strategie.
Presa in quest’intensa attività, per un quarto di secolo la Federazione ha perso di vista la realtà e non si è accorta che la pelle dei propri “lavoratori”, cioè i giornalisti, stava cambiando, così come cambiavano il mondo e l’editoria italiana. Così nelle sacre stanze l’idolo da servire è sempre rimasto il contrattualizzato, con tutta la teoria di liturgie ammuffite del sindacalese spinto. Il resto (liberi professionisti, contratti a termine, abusivi a vario titolo e ricatto, pubblicisti veri e finti, etc) è stato relegato nel limbo buio dei “collaboratori“, termine con il quale i sindacalisti liquidavano e molti tuttora liquidano le tante anime di cui sopra. Cui all’Fnsi fregava poco o nulla anche se, per via dei cambiamenti in atto, la loro massa aumentava in progressione geometrica grazie all’infaticabile opera del giornalistificio ordinistico.
Risultato: con buona pace del patetico giochino dei numeri (vedi qui) tirato fuori di recente dalla vicepresidente Stigliano, l’Fnsi associa una minoranza dei contrattualizzati e un’infima minoranza degli autonomi. L’argomento stiglianesco che questi sarebbero “pochi ma buoni“, cioè professionali, è risibile. In realtà l’Fnsi è, per costoro, solo un approdo residuale in quanto, appunto, unica sponda sindacale esistente. Nella metà dei casi, i pochi che entrano poi ne fuoriescono subito, delusi, o cominciano a farsi domande imbarazzanti (“A che serve? Che ci sto a fare se per me il sindacato non può, sa, vuole fare nulla?“). Fanno da superflua corona gli irriducibili per miopia, ideologia o interessi personali.
In questa mancanza di rappresentatività e, aggiungo io, di legittimazione non solo morale, stanno le risposte alle domande dei colleghi: mi ingerisco nelle questioni federali perchè questo sindacato, pur non rappresentandomi in alcun modo, tratta, pontifica, traccia linee politiche in nome della categoria e firma contratti in mio nome, senza alcun mandato. Si oppone con apparente sufficienza e in realtà con tutto il suo peso alla nascita di qualsiasi organizzazione parallela, guarda torvo (eufemismo) chi sgarra o osa contestare, difende con i denti il proprio potere di influenza e di inciucio.
Se non vi paiono buone ragioni queste…