di URANO CUPISTI
Prosegue il viaggio tra le pagine del taccuino delle scorribande sudamericane del nostro. Ecco il racconto di quando “…era giunta l’ora di lasciare la Patagonia argentina e dirigersi verso la Cordigliera“.
Era l’alba quando Ignatio bussò alla mia camera nella Posada di El Calafate. “Es hora“. Era giunta l’ora di lasciare la Patagonia argentina e dirigersi verso la Cordigliera.
La meseta aveva colori diversi. La luce mattutina le donava i contorni rossastri. I cespugli di calafate, i nostri falaschi, ci accompagnavano lungo il ciglio della carretera. Il coirom era pronto per il pascolo quotidiano di centinaia, migliaia di pecore. Un branco di Niandù, accortosi della nostra presenza, iniziò a correre verso l’infinito. Una lepre patagonica, spaventata dal rumore del Nissan, iniziò una folle corsa zigzagando cercando rifugio tra le piante basse di vinagricio mentre in cielo un carancho volteggiava pronto a predare.
Era iniziato un nuovo giorno in Patagonia.
Dopo due ore di continui sali e scendi, da un pianoro all’altro, dove la polvere alzata dal Nissan lasciava al vento la nostra presenza, arrivammo ad un incrocio. Località Ultima Esperancia. Di lì a poco ebbi modo di capire il perché di quel cartello.
Alcuni Chilotes accovacciati per ripararsi dal vento, attendevano il coche grande della magnana che, forse sarebbe passato. Nei loro volti impressa la storia.
Scambiammo qualche parola. Andavano, sempre forse, a Rio Gallego a fare acquisti. Avevano riscosso la paga della tosatura. “Trabajamos por pieza (il nostro cottimo, ndr) de una estancia a otra“.
Una stretta di mano, un saluto alla gaucho e via verso ovest; verso Cerro Casillo, il Cile.
Riporto dal mio Moleskine: “Lo scenario è quello patagonico, quello vero dove l’infinito è di casa. Trasportati dal Nissan dondolonte nel vento ci immergiamo in una fantastica tavolozza di colori. Al successivo bivio voltiamo verso Cancha Carrera, non una estancia, un paesino ma il posto di frontiera tra Argentina e Cile”.
Poco prima di arrivare Ignatio si fermò a pregare di fronte ad una piccola cappella votiva sul ciglio della carretera, prima dell’ultima curva a circa 500 metri dalla frontiera.
“Señor, tutte le volte lo faccio. A Cancha Carrera non so mai come finisce“. Come dire: auguri!
Di fronte a noi una barriera di ferro ricoperta di ruggine, inutilizzata da tempo. Al lato, sul bordo della strada un pennone, anch’esso arrugginito, con ciò che restava di una bandiera argentina. Di fronte una baracca scolorita. Tutt’intorno l’urlo del vento non più patagonico ma andino.
Entrai a fatica in quell’avamposto. Sulle pareti foto segnaletiche dei ricercati a contorno di una cartina geografica con evidenziata Cancha Carrera. Ero lì, alla vera fine del mondo.
Dietro un bancone di legno usurato dal tempo un militare armato fino ai denti in versione doganiere. Il gerente, il graduato responsabile era in siesta e non poteva essere disturbato. Seduto su di una panca insieme ad Ignatio parlavamo con gli sguardi mentre il militare sfogliava, risfogliava avanti e indietro il mio passaporto.
“Señor, porque en estas partes?“, mi chiese improvvisamente il gerente uscito da una specie di ripostiglio mentre si allacciava i pantaloni. Non trovavo le parole. Guardai Ignatio, uomo di esperienza da quelle parti, attendendo un aiuto che arrivò prontamente.
“El señor él es un naturalista, continúa al Parque Nacional Torres del Paine“. Il gerente mi guardò, guardò Ignatio come dire “ma chi prendi in giro?” e, con un timbro ben inchiostrato, cercando la prima pagina libera , con un colpo secco, autorizzò il mio cammino. Per me, in quel momento, la mia libertà.
“Gracias” esclamai. Voltandomi Ignatio era già sul Nissan. “Meglio non insistere nei convenevoli“. Con una manovra repentina aggirò la barriera dirigendosi verso l’Avanzada Rio Don Guillermo, quella cilena, percorrendo i due chilometri di rispetto ad una velocità pazzesca sia per la strada sterrata che per il Nissan.
Ignatio si giustificò ricordandomi che “…non sono abituati ai turisti. Hanno a che fare con contrabbandieri, assassini, ladri, immigrati chillotes senza permesso e nel caso migliore con avventurieri di ogni sorta”.
Cerro Castillo. Così si chiama la frontiera cilena da quelle parti. La barriera funzionava, il pennone ben tenuto verniciato di recente con issata la bandiera nazionale nuova nei colori e ad accogliermi un prefabbricato con funzione di dogana decisamente più accogliente di quello argentino.
Era giunta l’ora di salutare Ignatio e il suo barcollante Nissan bianco con i pneumatici diversi nelle dimensioni. Grazie a lui ho conosciuto la vera Patagonia.“Te veo, adios, ve con Dios”. Una stretta di mano, un sorriso e subito a “contrattare con dei chillotes” per superare Cancha Carrera. La sopravvivenza quotidiana.
L’ambiente all’interno del prefabbricato era stranamente familiare. Mi trovai di fronte una aduanera che, tenendo in braccio il proprio figlio, mi aiutò a compilare il documento d’ingresso. L’ufficio doganale sembrava un parco giochi. “Sa devo fare tutto da sola. Lavare, stirare, insegnare al bambino e, quando capita qualcuno, controllare i documenti, le merci. Insomma fare la doganiera”>.
Gli chiesi: “Come mai non vedo foto segnaletiche sulle pareti?”. Uno sguardo, un segno eloquente con la mano e “…ci pensano gli argentini. A loro non sfugge niente“.
Bienvenidos in Chile, bienvenidos nelle Ande cilene. Ma questa sarà un’altra storia da raccontare.