Querele ai giornalisti: punta dell’iceberg in un sistema incapace sia di difendere la stampa che di prevenire le diffamazioni. Impoverimento, precarizzazione e dilettantizzazione della categoria ne sono la causa.
Gli sconti non vanno fatti a nessuno.
I giornalisti non devono farne e nessuno deve farne a loro, ovviamente nei limiti della ragionevolezza, della verità dei fatti e delle leggi in vigore.
Detto questo, è evidente che in Italia tra giornalismo e giustizia c’è da tempo un grosso problema.
Un problema, ad essere onesti, biunivoco. Da un lato il sistema non tutela il lavoro dei giornalisti, minandone in tal modo dalle fondamenta l’obbligo di indipendenza e pertanto compromettendone la stessa funzione sociale. Dall’altro la categoria ci mette cronicamente del suo nel rilasciare patenti di capacità professionale che poi non trovano riscontro nell’esercizio della professione, con fatali rinculi anche e soprattutto giudiziari.
Ed è proprio di ciò che – sempre nell’auspicio di un dibattito non correntizio sul “mestieraccio“, in vista delle elezioni OdG di ottobre – vorrei parlare.
Sul Corriere della Sera, per il quale scrive, l’11 agosto scorso il collega di nera Cesare Giuzzi ha pubblicato una lettera aperta che è anche una sorta di pubblica resa: in Italia – questo ha scritto in sintesi – la malavita si difende dalle inchieste dei giornalisti non solo con minacce e violenze fisiche, ma anche nei tribunali, attraverso querele a raffica che non solo mirano a intimidire i cronisti, bensì a indebolirli economicamente, costringendoli a costosi, logoranti, insostenibili patrocinii legali.
Il tutto attraverso lo strumento, formalmente legittimo, della “querela con opposizione all’archiviazione” (per i dettagli tecnici rimando all’art. cpp 410 e qui), il quale, semplificando molto il discorso, consiste in questo: anche nel caso in cui il pm chiedesse l’archiviazione, il gip è comunque tenuto a tenere un’udienza. Il che, oltre alla dilatazione dei tempi, comporta l’ingaggio di avvocati, la redazione di memorie e perciò spese che, per tutelare in teoria il querelante, finiscono per affliggere ulteriormente il querelato.
Ma ciò sarebbe giusto e accettabile solo se, come invece accade in una larghissima percentuale dei casi che coinvolgono i giornalisti, la querela non fosse “temeraria“, cioè sostanzialmente infondata, pretestuosa, strumentale, sporta al solo scopo di intimidire il querelato contestandogli un reato che in realtà non c’è stato.
Naturalmente non si tratta di un fenomeno nuovo nè isolato. Anzi, è forse anche più diffuso di come Giuzzi lo descrive, nel senso che a valle dell’abuso malavitoso a cui egli si riferisce c’è poi un vasto sottobosco di casistica minima, solo apparentemente bazzecolare, che contribuisce non poco a limitare il diritto di cronaca e di critica.
Spesso alla querela si accompagna ad esempio, sempre a scopo intimidatorio, l’avvio di un’azione in sede civile, che punta a colpire, o almeno a minacciare di colpire il querelato/convenuto sotto il profilo strettamente patrimoniale attraverso la richiesta di risacimenti astronomici. E le querele e le cause fioccano, ormai, anche per normali articoli di cronaca o addirittura per recensioni negative di uno spettacolo, un prodotto, un libro, un film.
Ma cosa rende allora la denuncia del collega sempre più attuale?
Molti e convergenti motivi.
In primis, non tutti i giornalisti possono contare sull’assistenza legale che può offrire un grande giornale come il Corriere della Sera: per molti il rischio è pertanto di trovarsi cioè a dover affrontare il procedimento penale senza adeguate difese. Il secondo luogo perchè, come detto sopra, l’intimidazione della stampa per via giudiziaria è un fenomeno in netta espansione, sempre più diffuso, sistematico, frequente. A volte perfino preventivo. Terzo, perchè essendo aumentato in modo esponenziale nelle redazioni il ricorso a giornalisti esterni (pagati peraltro malissimo, come noto), può accadere che il giornale e l’editore di “sfilino”, lasciando gli “autonomi” davvero soli economicamente e psicologicamente.
Di contro, occorre ammettere che nemmeno noi giornalisti siamo immuni da colpe.
La scarsa professionalizzazione determinata da un troppo facile accesso alla professione e dalla mancanza di una seria formazione, il progressivo asciugamento delle redazioni, che accorcia e a volte azzera l’indispensabile filiera di filtro e di controllo sulla pubblicazione degli articoli, l’obbiettiva superficialità degli stessi e la mancata accuratezza costituiscono una fonte naturale di contestazioni, pretestuose e non.
E’ sempre più evidente dunque la necessità, direi anzi l’urgenza, di una riforma generale del sistema giornalistico che affronti anche questi temi e rimetta in equilibrio il rapporto tra l’indipendenza del giornalista e la responsabilità del medesimo, due pilastri di questa professione.
Purtroppo sono materie che direttamente spettano non a noi, ma a un legislatore cronicamente distratto sui grandi temi dell’informazione e della tutela della medesima.
Il che non significa che pure noi, attraverso il nostro Ordine, non si possa dare un contributo alla soluzione del problema.
Che ne pensano i candidati alle elezioni Odg di ottobre? Che idee hanno, che proposte si sentono di sostenere?