La battaglia per dare ai giornalisti liberi professionisti o freelance la garanzia minima di retribuzioni decenti era perduta da tempo. La sentenza del Consiglio di Stato che ha affossato la delibera di Governo e Fnsieg ha altri risvolti. Comici, ad esempio.
Ci sono cose talmente esilaranti che riescono a scuotermi anche rispetto a vicende verso le quali ho assunto nel tempo, prima per rassegnazione e poi per noia, un assopito distacco.
Chi mi legge sa la passione e il progressivo tedio con cui ho seguito la tragicomica storia dell’equo compenso giornalistico, conclusasi a metà 2014 con esiti grotteschi grazie all’illuminata azione di quanto di più catastrofico esista per i giornalisti italiani: la caricatura di sindacato che si ritrovano e il pactum sceleris sottoscritto dall’Fnsi e i suoi compari Fieg e Inpgi.
La fregatura intessuta dalle abili mani federali era doppia.
Non solo si era riusciti nella straordinaria impresa di stornare dalla nozione di equo compenso i più diretti e direi naturali destinatari della medesima, cioè i lavoratori autonomi veri e propri (ovvero i liberi professionisti), restringendo l’applicazione della norma ai soli parasubordinati (cococo).
Ma si era perfino andati oltre, ideando un meccanismo retributivo in base al quale, in parole povere, più lavori e meno guadagni. E comunque senza mai ricavare, va da sè, il minimo necessario per campare.
Una trovata che, abbinata alle soglie irrisorie fissate per i compensi-base, si era subito tramutata in una sostanziale presa in giro: contro la quale non a caso la categoria si era sollevata.
Così l’OdG aveva impugnato la delibera davanti al Tar del Lazio, con sentenza favorevole.
Contro tale sentenza era ricorso il Governo presso il Consiglio di Stato. Il quale, però, ora ha dato nuovamente torto all’esecutivo e ai suoi sodali.
Intendiamoci: leggendo la sentenza, non è che ci sia molto da rallegrarsi, se non per il fatto che essa demolisce le teorie della Fnsieg, riconfermando però la stortura di partenza (“…definito il collegamento [della delibera] con una posizione lavorativa che non ha in sostanza i connotati libero-professionali…).
Il motivo del mio ridere è dunque un altro: l’ennesima arrampicatura sugli specchi dialettici con cui il sindacato cerca adesso di dare alla sentenza un’interpretazione a sè favorevole, con l’argomento che la stessa non dà del tutto ragione alla controparte.
Non mi dilungo: leggete qui e, se non morite prima di sghignazzi, fatevi un’idea del punto a cui siamo arrivati nei giochi di potere della cupola professionale fatti sulla nostra pelle.
Voi chiamatela frutta, caffè o ammazzacaffè.
Io la chiamo verdura: quella marcia da tirare a una cricca ormai senza bussola.