Da equa, la retribuzione dei giornalisti autonomi (vedi anche una recente sentenza della Cassazione) pare diventata equestre. La Commissione va verso la proroga. E a ottobre dovrebbe esserci una conferenza nazionale. Ma dicono che non abbiamo clienti…

Francamente comincio a temere che, per via dell’impasse terminologico-normativa in cui i governi e la categoria si sono cacciati in decenni di inerzia, dalla questione non usciremo più. Se non con i piedi in avanti, cioè professionalmente defunti (tanto ormai ci siamo vicini).
Il problema è sempre il solito: il compenso, equo o meno, del lavoro giornalistico autonomo, incluso l’ufo che a quasi tutti sembra ancora essere la libera professione “pura”.
Non, cioè, quella che ne ha solo le sembianze, ma in realtà è uno stato di dipendenza camuffato, con o senza finta partita iva, oppure la condizione transeunte di chi è in eterna attesa di un’improbabile assunzione. No, parlo proprio del frutto di una consapevole scelta di campo lavorativa.
Lo stato confusionale in cui versano la materia e spesso i suoi interpreti spicca in tutta evidenza nell’articolo di Dario Fidora pubblicato (qui) il 16 su “Articolo 21”.
Il pezzo infatti mette bene in luce tutte le contraddizioni, le lacune normative, gli ostacoli, le aporie di un sistema in cui il lavoro autonomo, ormai da anni largamente maggioritario tra chi esercita la professione giornalistica, è tuttora privo di una sua regolamentazione organica e quindi costringe i giudici a vere e proprie acrobazie logiche e giuridiche. Talvolta con il paradossale risultato di individuare forse la via legalmente più corretta, ma anche la più ingiusta nei confronti del caso singolo.
Dal 2007 in poi – rileva giustamente Fidora – non esistono parametri (tariffari, ndr) aggiornati specifici per i giornalisti, validi in sede giudiziaria e che tengano conto della sempre più veloce e profonda evoluzione della professione. Da anni si attende che il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti ottenga l’emanazione da parte del Ministero di Giustizia dei compensi minimi per i propri iscritti, come già avvenuto per le altre professioni ordinistiche (DM 140/2012 ). Il giudice che oggi si trova a decidere sull’equità della remunerazione del giornalista non ha alcun esplicito riferimento ma deve seguire un criterio analogico, spesso impreciso e complicato“.
E aggiunge, sempre giustamente, che uno dei criteri a cui il giudice deve fare analogicamente riferimento è senza dubbio la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva: “Non era dato comprendere – chiarisce infatti il testo della sentenza riportata dal collega – il motivo per il quale a parità di quantità e qualità del lavoro reso da un giornalista in regime di subordinazione e da uno in regime di autonomia contrattuale non era possibile utilizzare come parametro di riferimento” il ccnl della categoria.
Vero, niente da eccepire.
E’ su ciò che segue che però non sono d’accordo.
È noto – continua Dario – che il giornalista, a differenza di tutte le altre professioni ordinistiche, non può fornire la propria opera direttamente all’utente finale, il lettore/ascoltatore, ma è costretto a lavorare per un editore. Questo necessario rapporto di dipendenza verso un soggetto datoriale ha portato il Collegio a riconoscere che tutte le forme di lavoro giornalistico autonomo sono ‘connotate da alcuni caratteri del lavoro subordinato e pertanto meritevoli di tutele assimilabili a quelle ad esso assicurate. In altri termini, ciò che la normativa in esame (l.233/2012 sull’equo compenso) intende garantire è una tendenziale equità retributiva tra chi è dipendente (ed è quindi retribuito sulla base dei criteri stabiliti attraverso la contrattazione collettiva) e chi non lo è, e quindi resta sottoposto alla forza contrattuale dell’editore, aspetto fondamentale che prescinde dall’organizzazione dello svolgimento della prestazione lavorativa‘”.
Questa mi pare una visione doppiamente limitata.
Da un lato non c’è dubbio infatti che la legge 233/2012 punti a garantire l’equità retributiva tra chi è dipendente e chi no e che, a tal fine, nell’applicarla si possa e anzi si debba far riferimento anche ai valori retributivi fissati dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Ci mancherebbe altro!
Ciò che contesto, perchè equivarrebbe a assimilare il lavoro autonomo a quello dipendente, privando la libera professione del suo stesso senso, è che il riferimento ai valori del ccnl sia o possa essere l’unico e, quindi, condizionante.
Al contrario, credo che tale parametro sia sì quello a cui riferirsi per stabilire il minimo inderogabile dei compenso dell’autonomo (cioè “mai meno” della retribuzione unitaria del dipendente), ma che esso non possa nè assolutamente debba stabilirne anche il tetto massimo, che ex lege è demandato alla contrattazione individuale. Perchè altrimenti si produrrebbe il grottesco risultato di cristallizzare il compenso del lavoro autonomo in una tariffa fissa, trasformandolo in una sorta di “lavoro diversamente dipendente“. Ovvero dipendente nei compensi, ma non nel contratto. E scusate la differenza.
Dall’altro lato, mi pare totalmente fuorviante – e padre di tutti gli equivoci in materia di giornalismo libero professionale – l’assunto per cui “il giornalista, a differenza di tutte le altre professioni ordinistiche, non può fornire la propria opera direttamente all’utente finale, il lettore/ascoltatore, ma è costretto a lavorare per un editore“: a parte che “costretto” non mi pare l’espressione giusta (direi invece che l’editore è la controparte naturale del lavoro giornalistico), devo sottolineare come, per un freelance propriamente detto, l’editore è a tutti gli effetti il cliente al quale il professionista fornisce la propria opera.
Capisco che ciò sia arduo da comprendere per chi ha una visione impiegatizia (in senso contrattuale, intendiamoci) della professione. E so anche che è grazie a quest’escamotage dialettico che l’Ordine ha creduto (per ora) di poter esimere i giornalisti dall‘obbligo dell’assicurazione professionale prevista dalle norme Ue per tutti i freelance, ovvero nel caso italiano chi esercita professioni ordinistiche.
Ma affermare che nessun giornalista possa avere clienti è semplicemente falso e giuridicamente sbagliato.
E finchè quest’abbaglio perdura, perdureranno gli equivoci.
E intanto, per ottobre, la Clan, la Commissione Lavoro Autonomo dell’Fnsi, annuncia una conferenza nazionale sull’argomento, “voluta – si legge in una nota – nella mozione approvata al 27° Congresso di Chianciano“. Congresso che, faccio sommessamente notare, si è tenuto nel gennaio 2015, appena 21 mesi prima