Le avventure del pachidermico investigatore privato inventato da Rex Stout sono non solo una miniera di thrilling, ma anche di alta cucina. E la ripubblicazione, in tascabile, del primo racconto della serie, offre l’occasione per riscoprirne il fascino gourmet.
Sedevo, oggi come allora, nello stesso punto dello stesso salotto, a fianco del medesimo caminetto. Ed erano le vacanze di Natale, come adesso. Solo di molti, molti anni fa. Era inverno, nella grande casa di campagna faceva freddo e io indossavo un maglione marrone fatto a maglia, con il colletto rivoltato come una camicia. Taglia da adolescente.
Tra le mani tenevo un libro, anzi un librone, con la copertina cartonata gialla e ruvida, che leggevo senza riuscire a staccarci gli occhi. E senza riuscire ad arginare i succhi gastrici che l’inesorabile connubio tra i sentori della cucina di casa e certi piatti d’alta scuola evocati nel romanzo mi stuzzicavano.
Così, ogni tanto, interrompevo la lettura e andavo a contemplare le schede raccolte in una tasca della terza di copertina: erano ricette, con tanto di colorata foto esplicativa, di elaborati piatti (così almeno mi parevano) della cucina francese. Appetitosissimi, in apparenza. Raffinati. Elaborati. Glassati. Gli stessi menzionati nel libro, è ovvio. Cucinati da Fritz Brenner e divorati, va da sé, da Nero Wolfe.
Il libro inaugurò la stagione, mai interrotta, del mio grande amore per il personaggio letterario inventato da Rex Stout. Un personaggio di cui, pochi anni prima, mi ero già invaghito grazie alle straordinarie interpretazioni televisive di Tino Buazzelli e di Paolo Ferrari, ovvero Archie Goodwin. Ma con il quale la vera scintilla scoccò per merito di quel tomo all’epoca rivoluzionario, una sorta di “gastrothriller pratico”, che non faceva solo immaginare, ma proprio dava l’illusione di sentire, di assaporare, di esserci dentro alla “vecchia casa di arenaria” al numero 918 della 35ma strada, a Manhattan.
Avevo, all’epoca, ancora vive negli occhi le immagini di “Alta cucina”, l’episodio wolfiano della serie tv condito di ingenui effetti moog, cristalli scintillanti anni ’70, le suole cigolanti del nostro e certi ambienti dai soffitti bassi, ma ridondanti di velluti e moquette, impregnati degli effluvi delle salsicce mezzanotte dalla formula segretissima.
Breve ricerca on line ed eccolo qui, il volume: si chiamava “Alta cucina del delitto”, era pubblicato da Mondadori nel 1969, aveva 891 pagine. Lo dicevo che era grosso. Conteneva: “La traccia del serpente”, “La scatola rossa”, “Alta cucina” (appunto), “Nero Wolfe e sua figlia” e “Tre sorelle nei guai”. Ora quasi nuovo lo si trova – incredibile! – a meno di 20 euro tra gli usati nelle grandi catene sul web. Ma, avverte l’onesto venditore (e con mio perfido compiacimento), “privo del ricettario in seconda (errore: come detto era la terza, almeno mi pare!) di copertina”. Che la mia copia invece, perché ovviamente io ce l’ho ancora, da qualche parte, conserva. Tiè!
Come un torrente in piena tutto ciò mi è tornato in mente quando tempo fa ho ricevuto per posta, dalla Beat Edizioni, la nuova edizione tascabile di “Fer-de-lance“, ovvero guarda caso “La traccia del serpente” del librone mondadoriano, il primo racconto (1934) della lunga saga di Nero, ora ripubblicato in versione economica (286 pagine, appena 9 euro) dalla casa editrice meneghino-veneta.
Una storia piena di fascino e di suspence, come tutte quelle stoutiane del resto. E che fin da subito scolpisce nei dettagli, tra le pieghe della vicenda, la burbera filosofia edonistica destinata ad accompagnare il protagonista per tutta la sua ultracinquantennale esistenza letteraria: birra fredda e schiumosa per conciliare la riflessione, il cibo come premessa alimentare e spirituale essenziale di ogni altra attività, la raffinatezza culinaria come incrocio di civiltà e di godimento, di ricerca intellettuale e di saper vivere.
Le indagini? Giusto una parentesi lucrosa e necessaria tra una portata e l’altra.
Fer-de-lance insomma, tra un serpente impacchettato e un omicida diabolico, è il classico racconto da divorare in un pomeriggio. E c’è da giurare che non sarà l’ultimo se la Beat continuerà, come promesso, a pubblicare il seguito dell’opera di Stout. Con succulento, cadenzato sciorinamento di altre ricette, pranzi, cene.
E siccome agli IGP e ai loro lettori, oltre che alla letteratura, piace appunto la cucina, ecco in coda il mio regalino di Natale: la formula delle famose “salsicce mezzanotte”.
Potrei dire che me l’ha rivelata personalmente il suo custode, il riservatissimo chef catalano Jerome Beren, dopo averla negata allo stesso Wolfe.
Invece sarò sincero: l’ho copiata. Dove, non lo dico. Chiedetelo a Archie Goodwin.
SALSICCE MEZZANOTTE
2 cipolle
1 spicchi d’aglio
30 gr cioccolato
2 cucchiai grasso d’oca
3 cucchiai brandy cucchiai di burro
3 cucchiai brodo di manzo
3 cucchiai vino rosso
timo, rosmarino,zenzero,noce moscata,chiodi di garofano,pane grattugiato q.b.
100 gr. pancetta bollita
100 gr. lonza di maiale arrosta
200 gr. arrosto d’oca
200 gr. fagiano arrosto
sale e pepe q.b.
1 cucchiaio pistacchi sbucciati
intestini di maiale
Tritate le cipolle e l’aglio e rosolatele nel grasso d’ oca. Versate prima il brandy fino a coprire le cipolle, poi il brodo ed il vino rosso. Aggiungete un pizzico di timo e rosmarino e spolverate con zenzero, noce moscata e con un’idea di chiodi di garofano. Cuocete a fuoco lento per dieci minuti e aggiungete sufficiente pane grattugiato per ottenere una polpa. Cuocete ancora per 5 minuti. Aggiungete prima il bacon bollito e l’arrosto di lonza, poi l’arrosto d’oca e di fagiano. Tutta la carne deve essere sminuzzata. Condite col sale e con una generosa dose di pepe nero, aggiungete il pistacchio e lasciate cuocere a fuoco lento finchè l’impasto di carne abbia la consistenza del ripieno di una salsiccia fresca. Raffredate completamente. Lavate e scottate gli intestini di maiale. Riempiteli con l’ impasto di carne, strozzando di tanto in tanto con del filo per ottenere le salsicce. Cuocetele sotto il grill del forno, dopo avere bucato qua e là la pelle.
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