Se non succede qualcosa, il 12 agosto 2012 diremo addio all’elenco dei pubblicisti o, meglio (tanto il risultato non cambia), alla distinzione tra giornalisti professionisti e giornalisti pubblicisti. Ecco una radiografia dei vari stati d’animo.

Sì, va bene: è un colpo basso sferrato dal famelico governo guidato dal (da oggi collega! No comment…) Monti per puntare alla lunga all’abolizione dell’Odg e, con esso, all’incameramento dei soldi dell’Inpgi.
Però, diciamocelo, ce la siamo voluta: prima con decenni di passiva acquiescenza al cospetto del giornalistificio che ha trasformato la categoria in un carrozzone e, più di recente, con la colpevole inerzia dimostrata dai vertici ordinistici e parlamentari di fronte alle sollecitazioni di riforma che giungevano forti, perentorie e chiare.
Il tragico è che, tra i diretti interessati, il ventaglio degli stati d’animo è variegato almeno quanto, al suo interno, lo sono i pubblicisti: nell’odierno, residuale calderone c’è infatti di tutto, dall’idraulico all’avvocato, dal giornalista puro al dopolavorista, dall’hobbista all’aspirante.
Ecco la casistica, una sorta di breve manuale di autodifesa psicologica con cui affrontare la buriana.
1) giornalisti a tempo pieno. Quelli cioè che dall’attività giornalistica ricavano il proprio reddito in modo esclusivo o prevalente. Insomma, “ci campano”. Sono messi peggio di tutti: quasi sempre hanno esperienza e capacità per “passare” professionisti, ma non guadagnano abbastanza (vista anche la crisi del settore) per superare la soglia minima reddituale prevista dalla legge ed accedere all’esame. Dall’abolizione dell’elenco hanno tutto da perdere, perché si troveranno senza “qualifica” professionale e in concorrenza con chiunque. Prospettive? Poche. Forse la speranza (improbabile) di essere ammessi d’ufficio all’esame da una norma transitoria o di un (altrettanto improbabile) aumento del reddito che gli consenta la stessa cosa. Si stima siano circa 5mila.
1bis) Precari o abusivi in attesa di regolarizzazione, partite iva loro malgrado, etc. Fanno parte di questo sottogruppo tutti coloro che aspirano all’assunzione e pertanto a diventare prima praticanti e poi professionisti, ma che non vengono assunti e spesso rimangono pubblicisti a vita, in attesa che la speranza si affievolisca o il cielo li aiuti. Coll’abolizione dei pubblicisti, nella sostanza la loro (scomoda) posizione non cambia, viste le loro ambizioni. Ma nemmeno li aiuta nè li incoraggia. Dovrebbero essere 10mila.
2) collaboratori esterni. Ovvero quei pubblicisti che collaborano attivamente ai giornali e ne ricavano un reddito (spesso basso a causa dei compensi minimi, a fronte però di una mole di lavoro importante) ma, a causa appunto dei modesti introiti, campano anche d’altro. Sono messi male pure loro, sebbene meno dei primi. Probabilmente conserveranno le collaborazioni e quindi l’attività di fatto, ma perderanno la qualifica. I ricavi, essendo già modesti, non ne risentiranno troppo. L’autostima, sì. A occhio, saranno 15mila.
3) i pubblicisti “veri”. Coloro cioè che integrano il profilo originariamente concepito per la categoria dalla legge 69 del 1963: un’attività non occasionale e retribuita anche se svolta contestualmente ad altre professioni o impieghi. Insomma fanno un altro lavoro e, se e quando ne hanno l’occasione, scrivono articoli giornalistici. Spesso hanno un profilo professionale elevato, senso della notizia, buone basi deontologiche, realismo, esperienza, nozioni specialistiche. Potranno, non come “giornalisti”, continuare a scrivere e subiranno quindi un danno soprattutto morale: senza un reale motivo si trovano privati di un titolo che hanno sempre onorato con coscienza e rispetto. E ora giustamente si chiedono (in 10mila almeno): perché?
4) gli appassionati. Sono quelli che scrivono e hanno sempre scritto principalmente per passione, per l’ebbrezza di fare domande, per il piacere di trovare e pubblicare la notizia. In pratica “volontari” della professione. Disinteressati all’aspetto economico della faccenda, in quanto mantenuti da altre attività, avvertono ora forte l’ingratitudine di un “sistema” che per parecchio tempo li ha usati e ora li butta via come ferrivecchi. Quanti sono? Direi attorno a 15mila.
5) gli hobbisti. Ovvero i pubblicisti che scrivono per passatempo, se ne hanno tempo e voglia, se e quando l’argomento li interessa. Far parte dei pubblicisti era un’opportunità lecita, che portava qualche piccolo vantaggio. Perdere questi piccoli vantaggi ora non sarà piacevole, ma neppure catastrofico e lascerà solo il modesto rimpianto per un mondo perduto. Anche loro sono circa 15mila.
6) tartinari, sedicenti, furbastri, scrocconi. Sono quelli che, scaltramente, intrufolandosi tra le maglie della legge e approfittando del cronico lassismo dell’Ordine, sono riusciti, spesso grazie a posizioni borderline, a farsi iscrivere a un albo al quale, a norma di legge, non avrebbero mai potuto essere iscritti. Scopo? Ovvio: trarne in vantaggi veri o presunti. Come partecipare ai buffet delle conferenze stampa, millantare incarichi per lucrare inviti, ottenere sconti (quali? Boh!), entrare gratis allo stadio, accaparrarsi omaggi e libri da rivendere alle bancarelle e altre amenità. Tutti privilegi spesso più immaginari che reali e buoni soprattutto per farsi belli al cospetto dell’ingenua società.
E’ la tipologia che più ha nuociuto al buon nome della categoria e che nessuno rimpiangerà. Quanti sono? Qualche migliaio. Ma all’immagine dei giornalisti fanno più danni della grandine.