Nel reportage (e non solo) il passaggio dal b/n alla policromia provoca in chi osserva un cambio di attitudine psicologica che fa mutare anche l’approccio verso le immagini stesse e il senso del viaggio o della storia che vi si racconta. O almeno mi pare.

Come tutti i colleghi ben sanno, sono un pessimo fotografo. Diciamo pure orribile.
Ma ho avuto la fortuna di viaggiare con grandi professionisti e da loro, nel tempo, ho appreso molte cose sul “senso” (teorico: di pratico nulla, ahimè) della foto di viaggio, sul racconto per immagini, sulla differenza tra servizio e serie di scatti, sulla lettura di ciò che si vede attraverso un obbiettivo e sulla sua interpretazione attraverso il click.
Su due cose però mi facevo domande da un po’, senza trovare risposte. La prima è il perchè dell’inossidabile fascino del bianco e nero anche nell’epoca delle fotografie a colori. La seconda è quale sia la ragione di quella sorta di diaframma psicostorico che, nella mente di chi guarda, tende a scindere l’approccio a uno scatto d’epoca in b/n da uno coevo, ma a colori.
Al primo interrogativo non ho trovato soluzioni, al secondo nemmeno.
Su quest’ultimo, però, mi sono fatto almeno un’idea.
L’opportunità me l’ha data la pubblicazione, su corriere.it di oggi (qui), di una eccezionale serie di immagini scattate all’inizio del ‘900 dal pioniere russo della fotografia Sergey Prokudin-Gorsky e definite “le prime foto a colori della storia“.
Si tratta di decine di fotocolor realizzate per documentare la vastità e l’ampiezza, etnica e geografica, dell’allora impero russo: ritratti, vedute, paesaggi, monumenti, scene di gruppo, attività di lavoro. Scatti di straordinario valore storico, ovviamente.
Ma che, essendo a colori, assumono in qualche modo anche tutto un altro sapore.
La vividezza le avvicina a noi, rimuove un po’ della polvere del tempo, accorcia il metro della distanza cronologica, ci rende quelle scene più familiari, le fa sentire quasi contemporanee o comunque tangibili, “esperienziabili“, moderne.
Insomma, vedere il cromatismo cangiante del mercato di Samarcanda nel 1910, l’azzurro vivo dell’abito dell’emiro di Bukhara Alim Khan nel 1911, le tinte dei tappeti in vendita nei bazar di età zarista ha prodotto nel mio approccio mentale a quel reportage la rottura del medesimo spartiacque psicologico che, in ognuno, separa i fatti avvenuti dopo la nostra nascita rispetto a quelli avvenuti prima. Per qualche buffa ragione, infatti, tendiamo (o almeno io tendo) a considerare recente, a volte perfino contemporaneo ciò che abbiamo vissuto o si è svolto durante la nostra vita e, viceversa remoto, appartenente a un’altra epoca ciò che è accaduto prima, anche se in realtà anteriore solo di pochi mesi.
Ecco: guardare gli scatti a colori Prokudin-Gorsky ha prodotto in me, rispetto al viaggio compiuto del fotografo un secolo fa, ai luoghi, ai soggetti fotografati, lo stesso effetto di riavvicinamento o di schiacciamento temporale, una via di comprensione diversa. Mi ha restituito un senso di continuità della vita e della storia, anche individuale, di cui invece il bianco e nero costituiva l’ostacolo, lo scrimine.
E così mi è venuta voglia di scrivere un reportage su quel viaggio.
Un reportage virtuale e del tutto fantasioso, ovviamente, ma non completamente finto. Perchè il colore ha reso quelle immagini, e il loro contenuto, molto più vicino a me e interpretabili con la ragione del presente più che con la suggestione.
Spero di essermi spiegato.
E chissà che ne pensano gli amici fotografi.