di URANO CUPISTI
Bangkok già caotica, Phuket semideserta, tuk tuk, voli avventurosi, capanne senza elettricità, indovini scafati, l’isola di James Bond, Budda in tutte le salse, i galli di Lampang e abiti a noleggio per entrare in Palazzo reale. Succedeva oltre quarant’anni fa…
Correva l’anno dei Mondiali di calcio, quelli per antonomasia: España 1982.
Ma io più del pallone avevo in testa il sud-est asiatico. O ciò che, per me, all’epoca lo rappresentava: spiagge tropicali, palazzi reali, rovine antiche, templi buddisti, mercatini galleggianti e la “vivace” Pattaya. Questo mi spinse in Thailandia, un paese verso il quale nutrivo una grande curiosità e allora ancora poco contaminato dal turismo occidentale, poi portatore della ricerca dell’esotico a tutti costi e del “proibito”.
Come mete scelsi Bangkok, Chang Mai, Lampang, Ayutthaya, Phuket e le isole di James Bond (Khao Phing Kou e Ko Ta Pu). Avevo tre settimane di tempo. Per gli spostamenti mi affidai a bus, treni, tuk tuk e qualche avventuroso volo interno, mentre per i pernottamenti trovai casa solo in guest house e capanne in perfetto stile locale.
Come sempre mi misi alla ricerca del biglietto aereo dal costo più basso, sapendo che avreo dovuto fare parecchi sacrifici economici a causa dei lunghi spostamenti. Ma lo sforzo fu modesto, perchè ebbi un colpo di fortuna: volo Thai International con cambio di aereo a Karachi, dove la coincidenza registrò appena mezz’ora di ritardo. Bel colpo!
Atterrato a Bangkok, ritirato il mega zaino e acquistati un po’ di bath al cambio ufficiale, raggiunsi il mio alloggio in centro città, dove mi rifocillai prima di buttarmi nel caos cittadino, a respirare a pieni polmoni gli odori che avevo immaginato preparando viaggio. Furono tre giorni di full immersion senza meta, tra edifici sacri e angusti vicoli tutti mangiano a tutte le ore. Mi mossi a bordo dei comodissimi risciò motorizzati, che consentivano spostamenti veloci in un traffico caotico che solo la gente del posto conosce e capisce.
Visitai, nell’ordine, il Tempio del Buddha sdraiato (Wat Tho), il Tempio dell’Alba (Wat Arun), il Tempio del Buddha di Smeraldo (Wat Phra Kaeo), Khaosan Road di giorno e di notte, Chinatown ed infine il Grande Palazzo Reale, che lasciai per ultimo perchè mi accorsi che, per entrare, bisognava essere vestiti in modo adeguato e io, naturalmente, non lo ero. Come fare? Nessun problema: vicino all’ingresso c’era un banchetto con in mostra pantaloni lunghi, maglie accollate con maniche lunghe, scarpe chiuse. Unico problema, se così lo possiamo chiamare, fu che tutti noi visitatori finimmo per trovarci vestiti uguali, con le fantasie di elefanti ben in mostra.
Lasciai tutto il resto della città agli ultimi tre giorni del viaggio, prima di ripartire.
Il quarto giorno lasciai la guest house e mi diressi alla stazione ferroviaria a prendere il treno-cuccetta per Chang Mai, dove arrivai all’alba del giorno seguente. Trovato l’alloggio, subito a visitare la città.
Accanto a un tempio trovai un anziano seduto, con le gambe incrociate e in mano un cartello con scritto fortune-teller. In pratica, un indovino. Come lasciarsi sfuggire un’occasione simile? Mi sedetti di fronte a lui, porsi la mano destra (ma non è la sinistra quella del cuore?, mi chiesi) e il vecchio iniziò una serie di particolareggiate descrizioni dei vari segni che leggeva sul mio palmo. Ma lo faceva in stretta lingua thai e dopo una decina di minuti in cui osservai le sue espressioni a volte tendenti al sorriso, a volte al contrario, gli dissi che non avevo capito un tubo. Allora il chiromante mi mostrò in segni zodiacali, mi indicò l’Ariete e tirò fuori una busta con dentro una pergamena scritta in inglese che, sintetizzando, profetizzava lunga vita, prosperità ed amori a volontà. Il tutto per 15 dollari. Mica scemo, il tizio!
A Chang Mai respirai un’atmosfera molto più tranquilla e rilassata rispetto a Bangkok. Il giorno seguente fu la volta dell’area di Mae Wang, con il santuario degli elefanti e “breve crociera” su di una zattera di bambù sul fiume Wang. Da Chang Mai mi spinsi fino a Lampang con mezzi di fortuna. Qui avevo tre cose da approfondire: l’industria del teak, con le bellissime case di legno e i templi in stile Shan, i galli di Lampang (si narra che, quando Buddha visitò Lampang, il dio indù Indra era preoccupato che la popolazione locale non si sarebbe svegliata abbastanza presto per preparare il cibo, così assunse le sembianze di un gallo per dare la sveglia alla popolazione: da allora l’animale è il simbolo della città e lo si trova ovunque), l’ospedale degli amici della Asian Elephant Foundation, già allora centro importante per la salvaguardia della specie.
Rientrai a Bangkok con un piccolo aereo ad elica, dove la scelta del posto venne decisa in base al peso dei passeggeri. I più leggeri davanti, i più pesanti in coda. A me toccò nel centro.
Nella capitale avevo un volo prenotato per l’isola di Phuket, la più grande isola della Thailandia. Nel 1982 era ancora vivibile, con la spiaggia di Patong quasi deserta. Era detta “la perla delle Andamane” e non mi fu difficile capirne il perché.
Per sistemazione trovai una capanna in prossimità della spiaggia di Mai Khao. Un luogo speciale dovuto alle enormi tartarughe liuto che ogni anno vanno lì a depositare le uova. L’alloggio era molto spartano e lo ottenni dopo una lunga trattativa condotta nella lingua dei segni. Si trattava di una di quelle dimore che sogni quando lo stress giornaliero ti assale: niente corrente elettrica, solo lampade ad olio (o qualcosa di simile), una zanzariera per proteggerti nel sonno, una tenda come porta e il canto del mare a cullarti nella notte.
Fu lì che finalmente provai l’emozione del vero massaggio thai. Non quello erotico di moda a Pattaya, intendiamoci, ma quello vero, a faccia in giù, un’ora di manipolazioni, a volte anche dolorose. In pratica sperai che finisse al più presto.
Scoprii poi che Phuket non era solo spiagge, c’erano anche il verde delle colline, la jungla e tanti boschetti di palme da cocco.
La provincia di Pang-nga ospitava un parco marino tra i più suggestivi della Thailandia. Khao Phing Kan aveva una particolarissima forma dovuta ad enormi rocce calcaree a strapiombo nel mare. L’isola fa parte di un arcipelago di una dozzina di altre isole, come la piccola Koh Tapu (sorge dall’acqua a 40 metri dalla terraferma), resa celebre dal film della serie 007 “L’uomo dalla pistola d’oro”, uscito nel 1974, e da allora ribattezzata James Bond Island: un cono rovesciato che sembrò un chiodo alto 20 metri con un diametro di 4 metri immerso in un’acqua di color verde giada.
Il mio viaggio stava però avviandosi al capolinea: restavano appunto solo i tre giorni destinati a Bangkok e dintorni, come il mercato galleggiante di Damnoen Saduak, il mercato ferroviario di Maeklong, l’enorme mercato di Chatuchak e il dedalo dei canali della città. Ultimo appuntamento, l’antica capitale Ayutthaya con i suoi tanti edifici storici, dal Phanan Choeng al Wat Phutthaisawan, fino al Wat Chaiwatthanaram, in stile khmer, che potei amirare nell’atmosfera suggestiva del tramonto. Il tutto tra altri svariati templi, Buddha in diverse forme e posizioni, laghi con grossi varani che nuotavano placidamente vicino alla riva.
L’ultimo giorno mi regalai il brivido finale: in tuk tuk verso l’aeroporto.
Sono passati più di quarant’anni, ma sembra ieri.