Pensavo di essere a Constanța. E invece ero a Tomi. Se non me l’avesse detto una dotta amica, avrei dovuto capirlo dallo sguardo accigliato del povero Ovidio, che mi scrutava curvo dall’alto della sua statua, davanti al municipio. Una piazza triste per un poeta triste che, esiliato qui da Augusto, non a caso ci scrisse i Tristia. E poi ci morì:
“Una regione prossima agli astri dell’Orsa Erimantide
mi tiene, un paese bruciato dalla morsa del gelo.
Oltre non resta che il Bosforo, il Tanai e la scitica palude
e pochi nomi di località appena note.
Più avanti nulla vi è se non l’inabitabile freddo.
Ahimè, come mi è vicino l’ultimo lembo del mondo!“.
Nulla però in confronto al vento tagliente e teso che fa sembrare di latta la grande bandiera sulla cima del pennone. Allo sguardo immobile di Mihai Eminescu sull’orizzonte, che il crepuscolo rende confuso tra cielo e mare, facendo apparire sempre più livide le onde di un Mar Nero mai visto così ostile.
L’interminabile passeggiata deserta, spalleggiata da una città ignota, piena di luci ma offuscata dalla bruma, sfiorata appena dalla luce fioca dei lampioni, con quel padiglione di un approssimativo stile liberty, che io e i miei compagni di viaggio avevamo lì per lì scambiato per l’acquario municipale. E che invece era un casinò, con l’accento sulla o. Anch’esso desolatamente chiuso, anzi sbarrato, aggredito fin dalle alle fondamenta da marosi spumeggianti, torvi, inveleniti. Come uno strano e derelitto faro mondano. Nulla lì, davvero, dava l’idea della movida che, con una certa disinvolta noncuranza, la guida turistica garantiva prosperare in quei luoghi, certo durante una stagione diversa dall’autunno.
La brezza ha presto il sopravvento, attenua la curiosità, si insinua sotto il bavero, ci respinge, ci riconvoglia infine verso una scalinata breve e buia, sopra la quale si agitano nevrotiche, quasi isteriche le fronde degli alberi. La nostra Dacia blu ha le sembianze di un rifugio, sebbene nè caldo e nè accogliente. Si riparte. Il cielo accenna a qualche goccia di pioggia. Due curve, rieccoci in piazza Ovidio. Lui è sempre immobile e torvo, nessuno che lo degni di un’occhiata, le auto disordinatamente parcheggiate ai suoi piedi. Noi andiamo di fretta verso l’aeroporto.
Pochi metri e Tomi ridiventa Constanța. Il traffico, i semafori, il porto. Con la pista di atterraggio costruita, almeno credo, sulla scitica palude a fare da oscuro tappeto rosso al nostro congedo.