Soundtrack: “Cello song” (Five Leaves Left, 1969).
Soundtrack: “Fly” (Bryter Layter, 1970).
Soundtrack: “From the morning” (Pink Moon, 1972).
A trentasei anni dalla scomparsa, sotto la potente spinta della fabbrica del mito, la critica tende a trascolorare nell’agiografico e a perdere di vista la straordinaria ricchezza dei toni e delle fonti di ispirazione del cantautore inglese. Ora, che suo malgrado è divenuto personaggio da diario degli adolescenti, vorremmo ricordarlo con il realismo che la qualità cruda e lucente della sua musica merita.
Domani avvenne che, nel 1974, moriva Nick Drake. Aveva 26 anni.
Drake è, anzi è diventato in tempi relativamente recenti, una leggenda. E, come tutte le leggende, è finito in pasto al mito popolare. Un’icona, si usa dire. Dell’esistenzialismo a buon mercato, innanzitutto. Del disagio giovanile. Della teenage wasteland (direbbe Roger Daltrey) e della teenage depression (direbbero invece Eddie & the Hot Rods, un gruppo che nasceva esattamente mentre Drake ci lasciava). Un soggetto buono per gli adesivi catarifrangenti, al fianco di Jim Morrison e di Bob Marley. Buono anche per vendere dischi e per scrivere libri, vista la sovrabbondanza di produzione letteraria, nella maggior parte dei casi inutile, che lo riguarda. C’è perfino chi ha alimentato la fola – proprio come Elvis, o Morrison – di una morte simulata, di un ritiro volontario. E anche se fosse? Nick Drake incise il suo terzo e ultimo disco nel 1972 ed artisticamente parlando è morto allora. Nessuna traccia delle fantomatiche registrazioni con Francoise Hardy. Un pugno di cupissime canzoni del biennio 1972/4, uscite postume. Nulla comunque che aggiunga gloria alla figura dell’artista.
Un artista grandissimo, va da sé. La conoscenza e la comprensione del quale si struttura su molti livelli, richiede la capacità di attingere a fonti profonde, di insinuarsi nei meandri di una formazione musicale e culturale composita in cui giovanilismo e spirito british, provincia e cosmopolitismo, r’n’r e letteratura si intrecciano sullo sfondo della swinging London, il ’68, la mistica della marijuana, gli echi del grand tour, il fascino della Francia, i pub fumosi, i club elettrici e i fantasmi di un impero da poco perduto.
La critica si è scervellata a indagare le influenze e le radici di Nick Drake, senza tuttavia riuscire ad uscire dal conformismo delle riletture di maniera. Pochi sono riusciti ad andare oltre allo stereotipo del songwrtiter malinconico e sensibile. Pochissimi quelli che hanno colto nelle strane accordature e nel mood dell’arpeggio i richiami a certi blues del Delta, i rigurgiti di musica da camera a lungo orecchiati, le dissimulate assonanze beatlesiane e l’eco di tanto, apparentemente incompatibile rock coevo: dai Procol Harum alle derive psichedeliche e floydiane di quegli anni. A testimonianza di un musicista che visse anche, e profondamente, il suo tempo.
Non starò nemmeno qui a fare la conta, parimenti patetica, di chi conosceva Nick Drake prima e dopo che l’industria discografica lo riscoprisse.
Dico solo che la figura di Drake va oltre le pretese e le banalità della retorica da “musica giovane”. Si sottrae per incanto alle melme generazionali. E si colloca di diritto tra quella dolorosamente adulta.
Aldilà di questo, e di mille altre teorie interpretative che hanno alimentato negli anni il mito dello sfuggente cantautore, forse più di tutto vale il silenzioso sorriso con cui lo schivo Robert Kirby, l’arrangiatore del primo disco di Drake, rispose un paio di anni fa alla domanda postagli da un giornalista: “E’ vero che Joe Boyd, il produttore di Nick, lasciò Londra per gli Usa esasperato dalle atenzioni di Sandy Denny, la voce dei Fairport Convention? E che la partenza di Boyd gettò Nick Drake nella disperazione?”.
Kirby tacque senza rispondere. Forse Joe non era scappato da Sandy. Ma da Nick.