In una degustazione che ha messo a confronto tra loro, nella bella proprietà di Elisabetta Gnudi Angelini, quattro annate del celebre cru di Montalcino e, in parallelo, cinque del glorioso bianco Igt Toscana inventato da Vittorio Fiore, è il secondo a sorprendere di più per longevità e pienezza.

In quell’intreccio di piccole e grandi ironie della sorte che a tutti capitano nell’arco di una vita, ce n’è una di cui mi sono ricordato alcune settimane fa, quando sono stato invitato a Caparzo, alle pendici di Montalcino, per una degustazione verticale di quattro annate di Brunello La Casa e cinque di Le Grance, l’Igt bianco dell’azienda.
Mi è venuto in mente il Vinitaly del 1988, il primo della mia carriera. E il pranzo di gala che seguì il convegno dedicato al centenario del Brunello. E’ lì che fu servito infatti, e io assaggiai per la prima volta, quel bianco di gran corpo, capace di far impallidire per potenza tutti gli altri. Era Le Grance, appunto. Lo conoscevo di fama. Ma all’epoca non era così chiaro che avrebbe fatto da apripista a tutta una serie di vini, anzi a un vero e proprio filone enologico destinato a dimostrare che anche in Toscana si sarebbero potuti fare bianchi non “facili”. Filone rivelatosi non sempre necessariamente virtuoso, nei suoi sviluppi. Ma comunque che ha fatto di quel vino un benchmark nel suo genere.
E’ quindi con grande interesse e curiosità che, assieme ad altri colleghi, prima di assaggiare il Brunello mi sono avvicinato ai campioni di Le Grance, annate 2007, 2004, 2002, 1996 e 1993. Tutti prodotti dalla medesima vigna, mai reimpiantata, realizzata nei primi anni ’80 su terreni sabbioso/argillosi con barbatelle di Chardonnay (70%), Sauvignon Blanc (20%) e Traminer (10%). Una lunga vicenda raccontata tappa per tappa, con una punta di malcelata emozione, dal “testimone oculare” Massimo Bracalente, colui che prima da bambino, poi da dipendente e infine da enologo dell’azienda ilcinese è letteralmente cresciuto a Caparzo e quindi delle vigne conosce le proverbiali vite, morti e miracoli.
Tra tutti i millesimi, il più sorprendente è stato il 1993: sontuoso e vivo in bocca , quasi beverino nonostante l’età ma al tempo stesso lungo e solenne, di grande equilibrio, con un naso screziato, a volte fragrante, che muta con i minuti e, dopo i funghi e il tartufo, rivela alla fine piacevoli affioramenti di miele che, chiudendo il cerchio, richiamano il colore dorato e caldo. Analogo, anche se meno importante, il 1996, che risulta al palato un po’ più scarico rispetto al precedente, ma con esso condivide le note melliflue e i sentori di sottobosco. Eccellente per intensità e ampiezza l’annata 2002, con un tono dorato carico e brillante, un naso minerale, quasi balsamico e le consuete nouanches di “terra nobile”. Meno interessante, anche se piacevole e agile, l’annata 2004, connotata da una spiccata florealità che tende a virare in eccessiva dolcezza. Caratteristiche che paiono affiorare meno nel pur giovanissimo 2007, vino di colore marcato e brillantissimo, con un naso denso, quasi pastoso, in cui le note dolci tendono a prevalere e ad estendersi in bocca.
L’entusiasmo per il bianco ha quasi rischiato di mettere in ombra le quattro annate di Brunello La Casa (1979, 1985, 1993, 1997), delle quali la prima ancora “bollinata” col marchio doc e, ciononostante, ampiamente godibile, con un bel naso intenso e rotondo, avvolgente, e una bocca quasi fresca, integra, forse appena un po’ corta. Eccellente nella su austera asciuttezza anche l’annata 1993, molto elegante al naso e quasi solenne, severa, direi antica in bocca. Meno convincente il 1985, con un profumo un po’ debole all’impatto (ma poi si riprende con note di sottobosco, foglie secche e cuoio) e una bocca parimenti non brillante, un po’ vuota, con ritorni amarognoli. Altalenante infine il 1997: forse inferiore alle esagerate aspettative critico-propagandistiche dell’annata, in realtà ben vivace, con un naso nervoso e cangiante e una bocca un po’ corta ma fresca, rotonda e sapida.