Il sovrappeso cronico è ormai una piaga sociale, ma l’ossessione degli italiani è diventata mangiare, bere e parlare di mangiare e bere. Ciò ha alimentato un business e “nuove professioni” che però, per evidente saturazione, sono sull’orlo del collasso. Chi è coinvolto si prepari alla fuga.

 
Nonostante un’Italia ormai in sovrappeso cronico come un’America qualunque, le gente non solo parla quasi unicamente di cibo, ma mangia, stramangia, s’ingozza in ogni momento della giornata e in ogni giorno della settimana.
Per carità, l’edonismo (almeno secondo me) non è un peccato.
Il problema è quando questa deriva alimenta un sistema economico che appunto si basa sullo strafogarsi collettivo e compulsivo e quando il sistema stesso, sovraccarico, comincia a scricchiolare. Rischiando di crollare da un momento all’altro.
I segnali premonitori abbondano.
Ne prendo qualcuno a caso: la home page di corriere.it (ormai un rotocalco-civetta) ha in media 3/4 titoli al giorno legati al mangiare e bere o alle relative diete; in una media città come Firenze si contano ormai 4/5 “eventi” enogastro/ape/risto/bar al giorno, 365 giorni all’anno; perfino i professionisti del settore (intendendo per tali non quelli che vogliono, ma quelli che per lavoro devono occuparsene e/o presenziare) ormai hanno difficoltà a gestire il calendario e ad adeguarsi alle cadenze; solo scorrendo l’elenco dei miei amici di FB, conto una cinquantina di persone che, negli ultimi 18 mesi, dal fare altro si sono reinventati un’occupazione vera o presunta nel settore: dai soliti blogger/influencer/digital pr ai gestori di locali, dai cuochi a domicilio ai consulenti, dai gastrovideomaker agli enomanager; un post su tre sui social di ogni genere, ordine e grado riguarda la gola, i suoi luoghi di culto, i suoi officianti.
Naturalmente auguro a tutti il massimo successo, ma che la saturazione è arrivata e che il circo è prossimo al collasso mi pare evidente.
Saturazione, attenti, non significa che non c’è più spazio per fare, ma che non ce n’è per guadagnare, cioè per vivere di ciò che si fa. Il resto è dunque hobby (finchè uno può permetterselo) o tempo e denaro mal investiti.
E siccome si parla non di un costume sociale in sè, ma del business che quel costume alimenta e del quale esso stesso si alimenta, al posto di chi ci campa comincerei a preoccuparmi: la bolla sta per scoppiare.
Come non ripensare allora la scena-cult (qui) di “Tommy” di Ken Russell, in cui un’ubriaca Ann Margret tira una bottiglia di champagne sul televisore che si rompe e da quale escono, in sequenza, tonnellate di bollicine, fagioli, vomito e infine ciocciolata dove lei finisce (disperata) per sguazzare?

Io vi ho avvertito, ma poi non chiamatemi Cassandro. Basta guardarsi intorno senza il prosciutto (appunto) sugli occhi.