di BEPPE LO RUSSO
Ovvero: cosa rende un cuoco un autore? Tra qualche punzecchiatura polemica, il nostro antigastronomo prova a rispondere come George Simmel: servono forme di produzione che integrino il valore della differenza individuale con quello della comune appartenenza sociale“.
Per riconoscere delle qualità originali ad un romanzo, è stato detto che deve assomigliare alla letteratura senza assomigliare a nessun altro romanzo. Per dirla in altro modo, in un’opera nuova bisogna avvertire un senso di appartenenza all’arte di riferimento senza che possa essere confusa con nessun’altra opera. Non è diverso per un piatto o per una cucina che voglia essere una creazione originale e che faccia del suo creatore un autore. Ma chi è un autore?
Autore, dall’etimo latino auctor, è colui che accresce, rende grande con le sue opere un’arte. Nello specifico, cosa rende un cuoco un autore di cucina?
Bisognerebbe chiedersi prima qual è il compito del cuoco. Semplice: quello di accrescere il nostro piacere di alimentarci mettendo in essere ogni genere di artificio per aumentare l’appetibilità e il gusto di un piatto o di una cucina, intendendo con questo tutte le sensazioni relative ai nostri cinque sensi.
Come già scriveva le tante volte citato Anthelme Brillat-Savarin: “Tutta l’industria umana si è concentrata al fine di aumentare la durata e l’intensità del piacere della tavola“.
Se accogliamo la tesi che ogni rivoluzione in qualunque attività creativa è una rivoluzione formale e che la tradizione la fa chi si oppone ad essa, ogni opera d’arte in genere, come ogni nuova proposta di cucina, è sempre costruita in parallelo o in contraddizione ad un qualche modello precedente o coevo. Ogni nuova forma appare non per esprimere un nuovo contenuto – nella fattispecie, l’agnello è agnello, il cavolfiore resta il cavolfiore ecc – ma per sostituire una forma ormai invecchiata e dunque incapace a veicolare il contenuto come viene comunemente inteso nell’attualità.
Tuttavia, perché questa nuova forma venga riconosciuta sta all’autore trovare una maniera che riesca a tener conto e ad integrare il valore che dà alla propria peculiare differenza individuale, d’artista, con quegli elementi che ha in comune con il suo prossimo, destinatario dell’opera. Pena l’isolamento e la censura o, se volete, il non riconoscimento.
Qui ad aiutarci è la definizione di identità come la formulò molto lucidamente nel primo decennio del secolo scorso il sociologo tedesco George Simmel, quando scrive: “L’individuo è l’uomo intero, non ciò che rimane quando da questo si toglie ciò che condivide con gli altri. L’unicità dell’individuo abbraccia sia gli elementi che il singolo ha in comune con gli altri sia quelli che gli sono propri“. E ancora: “Bisogna creare forme di produzione e di comunicazione che integrino il valore della differenza individuale con quello della comune appartenenza sociale“.