Ecco quanto ho sentito oggi a un corso di formazione: ci sono articoli-marchetta per definizione (su vini, ristoranti, viaggi, libri, film, auto, moda, etc) e chi li scrive è un tendenziale marchettaro. Ma bisogna capirlo, tiene famiglia. Non ci credete? Leggete…
Nella testa di molti giornalisti di quotidiano, soprattutto della vecchia guardia, circolano strane idee. Ad esempio che l’unico tipo di giornalismo degno di questo nome sia il loro: generalista, basato sulla cronaca e fatto da redattori. Il corollario è che tutto il resto non è giornalismo serio, che ciò che esula dalla cronaca è fuffa e che chi scrive lo fa di norma per compiacere se stesso o qualcuno, in alto nel giornale o all’esterno di esso. Corollario del corollario è che i collaboratori sono i primi complici di questo sistema. Cioè, in parole povere, marchettari: per vocazione, per scelta o per necessità (quest’ultima toppa giustificativa è risultata anche peggiore del buco).
Quando poi, dopo e in privato, ti spieghi, la cosa prende per fortuna sfumature e toni diversi.
Ma, lì per lì, sentirsi dire brutalmente che tutti gli articoli che parlano di vini, ristoranti, moda, arredamento, viaggi, tempo libero, auto, libri, tv, spettacoli o elettrodomestici non sono notizie ma marchette (e quindi chi li scrive è tendenzialmente un marchettaro più o meno consapevole) fa abbastanza inquietare. Primo, perchè non è vero. Secondo, perchè allora può essere marchettaro anche il cronista che riporta una versione dei fatti invece di un’altra o il notista che cita le parole di un politico anzichè di un altro. Terzo perchè la critica giornalistica da un lato e l’esistenza ultracinquantennale della stampa specializzata dimostrano il contrario. Cioè che la differenza la fanno il recensore e chi lo paga (me mi paga l’editore) e che la credibilità dello spazio dedicato a un argomento dipende innanzitutto dall’autorevolezza del recensore e dalla specializzazione della testata: è insomma cosa ben diversa se alla nuova Mercedes si dedicano quattro pagine sul quotidiano locale o su Quattroruote.
Le affermazioni suddette sono suonate ancora più surreali se si pensa che, da almeno tre decenni, tutti i quotidiani hanno pagine specializzate sui temi più disparati. Pagine che, secondo la logica detta sopra, sarebbero anch’esse e a prescindere dei contenitori di marchette gestite da caposervizio marchettari alla guida di giornalisti marchettari.
Eppure sono parole pronunciate forti e chiare in una sala gremita da duecento colleghi toscani affluiti lì oggi per seguire un corso di formazione dell’Ordine su “Comunicazione, pubblicità e deontologia“.
L’incipit è stato il seguente: se un giornale dedica una recensione positiva a un ristorante, dandone magari (orrore!) indirizzo e giorni di chiusura, si tratta di pubblicità. Quindi di marchetta. E se un candidato a diventare pubblicista porta a riprova dell’attività svolta articoli di quel genere, è anch’egli un marchettaro.
Come se la stampa di settore o di servizio non esistessero. E come se la marchetta dipendesse dai temi trattati.
Ovviamente si è aperta una controffensiva dialettica non da poco, alla quale ha preso parte anche chi scrive.
Il quale ha fatto presente sia quanto detto prima, sia il fatto che l’unico modo in cui il mondo della stampa si può manicheamente dividere è quello tra giornalisti corretti, cioè pagati dall’editore per il quale scrivono, e giornalisti scorretti, cioè che scrivono sotto dettatura o per mercede esterna, a prescindere dall’argomento. Nel mezzo stanno quei dilettanti che, scrivendo per il piacere o la voluttà di farlo, non si preoccupano nè di guadagnare col proprio lavoro, nè di ricevere regalie in cambio della loro disponibilità.
Ho aggiunto che la seconda e la terza categoria sono in effetti assai floride e che senza dubbio squalificano la prima, essendo anzi le principali nemiche dell’informazione e della professione.
Ma ho detto pure che è abbastanza curioso come l’Ordine, il quale giustamente assai si preoccupa del rispetto della deontologia da parte dei propri iscritti, non abbia poi tutta questa superciliosità quando, per ammettere la più variegata gente nell’elenco dei pubblicisti, non dà neppure un occhio alla congruità dei compensi percepiti per gli articoli prodotti, o quando non adempie all’obbligo della revisione biennale dell’albo.
Che sarebbero le armi più semplici ed efficaci per arginare certi malcostumi.
Per i professionisti, poi, basterebbe segnalare all’OdG i casi sospetti.
Perchè ciò accade così di rado? Perchè tanta generica denuncia e tanta pratica tolleranza? Connivenza, pigrizia, corporativismo, timidezza, disinteresse, tante parole e pochi fatti?
Benvenuti nel pianeta della pornoinformazione.
Deontologicamente corretta, però.