Quattro orari diversi per le partite domenicali. Poi preanticipi, anticipi, posticipi e postposticipi: la follia televisiva travolge anche il calcio, dopo che già altri sport erano passati dalla passione al ridicolo pur di dare “spettacolo” a tutti i costi (cioè a pago).

Soundtrack: Rita Pavone, “La partita”

 

C’era una volta lo sport, nel senso di praticato. Poi venne quello degli “sportivi”, di quelli cioè che bevevano lo Stock 84 e lo sport lo guardavano con il cuscino in tinta dalle gradinate dello stadio, oppure aspettando impazientemente le 16 per seguire i secondi tempi di “Tutto il calcio minuto per minuto” dell’era ante Barendson-Valenti. Ma era comunque passione. Giunse quindi l’epoca delle differite tv, diventate più tardi dirette (il mitico “vivo/live” di Mexico ’70), all’interno delle quali c’era in ogni caso un evento sportivo tecnicamente inteso e che venivano seguite solo dagli appassionati. O quasi.
Tutto cambiò quando ci si accorse che lo sport televisivo poteva attrarre anche un pubblico più vasto e generalista, a condizione però che la competizione diventasse anche “spettacolo” e che, di conseguenza, i protagonisti diventassero “personaggi”.
Fu l’inizio della fine. Lo sport in tv perse progressivamente i suoi connotati tecnici, in apparenza compensando la perdita con il presunto aumento della competenza media degli spettatori. La visibilità, diretta conseguenza della spettacolarizzazione, aprì finestre di mondanità, di esibizionismo e quindi di marketing prima impensabili. Chiusasi per sempre l’epoca della “partita di pallone”, per la quale i mariti lasciavano le mogli sole a casa, le donne cominciarono a entrare nel mondo del calcio, prima appassionandosi incomprensibilmente a uno sport mai praticato in vita loro (e di cui quindi giocoforza ignoravano peculiarità e dinamiche) e poi perfino da critiche (per le quali il discorso vale al cubo). Erano tuttavia decorative e, sotto il profilo commerciale, un eccellente additivo. Il giochino infatti ha funzionato.
Oltre al pallone, anche automobilismo, sci e tennis fecero presto la loro massiccia irruzione sui teleschermi, finendo per esserne fatalmente condizionati.
La parte del leone toccò ovviamente alle discipline più ricche, cioè il football e la F1. Oltre alle dirette, nei palinsesti si svilupparono così gli spazi di approfondimento pre e dopo gara: spazi appetibili, perchè sponsorizzabili, ma da riempire di contenuti. Contenuti però fruibili dal massimo pubblico possibile, quindi banali. Poi si cominciò ad allungare i calendari dei campionati. Afferrato il concetto che l’irradiazione televisiva planetaria si poteva trasformare in una sorta di ininterrotto spot globale, l’evento sportivo fu condotto ad essere una reclame turistica del luogo di svolgimento, a prescindere dal senso tecnico: ecco quindi gli slalom di coppa del mondo fatti in città, i gran premi corsi su circuiti nel deserto arabico e coperti di sabbia, le corse motociclistiche in notturna. Cose sportivamente assurde.
Parallelamente, attorno allo sport fu costruito pian piano uno star-system incardinato su pochi campioni-personaggio (Schumacher, Rossi, Beckham) pensati apposta per ridurre gli sportivi a banali fan e gli avversari a comparse, ma in compenso capaci di alimentare all’infinito il volano gossipparo e pubblicitario.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Da qualche anno, La F1 ha fatto karakiri tra regolamenti astrusi, sorpassi ai box, scandali vari e una mortale, invincibile, soporifera noia. Il motociclismo per un po’ ha tenuto botta, poi ha sbracato anche lui: dato l’addio, se non come coreografiche figure delle retrovie, ai piloti più ruspanti e guasconi, il teleobbiettivo è diventato prerogativa dei grilli parlanti. La 500 è diventata moto gp, annichilendo per sempre la bagarre e i distacchi al millesimo. Siccome le categorie inferiori erano diventate più divertenti, ma meno remunerative, prima sono stati tagliati i budget, poi la visibilità. Ora le stanno togliendo di mezzo tout court. Allo sci, sport forse non abbastanza ricco nè, visto il contesto in cui si pratica, non piegabile più di tanto alle leggi del peak time, all’inizio si è provato a cambiare gli orari (imponendo gare a sole alto e neve in pappa o assurde manches disputate nell’oscurità), finchè non è uscito dal tubo catodico che conta.
Quanto al calcio, c’è bisogno di dirlo? Tanto per cominciare, la troppa tv ha svuotato gli stadi. Poi si è trasformato da amato rito domenicale in tediosa ossessione televisiva quotidiana. Per riuscirci, si sono dovuti però portare i campionati di A e B da 16 a 20 squadre e avere così tornei più lunghi ed ergo più “ciccia” per le telecamere. Risultato: nella massima serie, annacquamento dei valori e crescita delle distanze tecnico/finanziarie tra grandi e piccole squadre (con relativa battaglia per i diritti tv e l’accaparramento pubblicitario); tra i cadetti, “uccisione” del campionati e regressione tecnica alla vecchia C. Ma tanta carne messa al fuoco andava poi catodicamente consumata, perchè nemmeno il telespettatore può essere ubiquo. Via quindi al grottesco teatrino di anticipi e posticipi (per la A), ai preanticipi e postposticipi (per la B fatta slittare al sabato).
Ora siamo giunti al macinato, al calcio-hamburger (mai accostamento fu più azzeccato: dal fast food al fast football) con preanticipi e postposticipi anche per la serie A, giornate di campionato spalmate in quattro giorn e, di conseguenza, esigenze di approfondimento continuo. Gettito televisivo (forse) in crescita, credibilità e appeal (senza dubbio) a zero.
Buon sonno.