Ieri ho cavato parecchi chiodi da una vecchia trave.
Piantare un chiodo pare una cosa semplicissima: basta il martello, nel senso che la presenza del chiodo è implicita. Non costano niente e ce n’è di ogni foggia.
Poi però ho osservato quei chiodi. Fatti a mano, battuti uno per uno. Ognuno ha richiesto ferro, fuoco, mantice, fabbro, tempo e gestione del medesimo. Avevano un costo unitario enorme, che non ammetteva sprechi. Il chiodo storto si raddrizzava, quello caduto si raccoglieva, quello piantato si recuperava in giorni in cui fare economia, prima che una necessità, era una logica. Fabbricare chiodi era lento e costoso, non si poteva permettere che mancassero quando erano necessari. Lo stesso valeva per fiammiferi, riutilizzati dalle massaie finché non erano un moncherino, e per gli scaldini dei nonni, che passavano di generazione in generazione finchè non si sfondavano. Tirchieria, povertà, ceto sociale c’entravano fino a un certo punto: era una questione di attitudine mentale.
Questo mi piace del passato: la capacità di dare alle cose anche più semplici il loro valore intrinseco, il che significa anche non sprecare e non produrre scarti inutili.
A chi mi accusa di essere un nostalgico, nel senso di cantore di un vago “bel tempo che fu”, rispondo di osservare da vicino un vecchio chiodo, che è un esempio della lucida concretezza di quel passato. La capacità, senza infingimenti, di andare dritto al problema senza raccontarsi balle e chiamandolo col suo nome.
Lo definirei realismo