Giunto al giro di boa della ventesima vendemmia del suo celebre sudtiroler blauburgunder, Martin Foradori, patron della casa vinicola Hofstaetter di Termeno (BZ), ha organizzato una goduriosa degustazione verticale di tutte le annate del rinomato cru della tenuta sulla sponda sinistra dell’Adige. Un’occasione imperdibile per mettere a confronto, una accanto all’altra, le tappe di una storia vinicola di successo.

Ci sono vini che – per la loro storia, per la loro qualità, per la personalità del produttore o per tutte queste ragioni insieme – hanno un particolare fascino. Ci sono poi dei vitigni che emanano il medesimo fascino. E ci sono opportunità che nessun giornalista dovrebbe, né vorrebbe, farsi sfuggire.
Questi sono i motivi per quali una degustazione verticale di tutte le annate del Vigna Sant’Urbano, il leggendario cru di Pinot Nero della Tenuta Barthenau a Mazon, in Alto Adige, fiore all’occhiello della casa vinicola Hofstaetter, rappresenta un’occasione unica.
“Rotonda”, per di più. Perché quella organizzata giorni fa con la consueta, signorile sobrietà dal titolare dell’azienda, Martin Foradori, voleva anche celebrare i vent’anni di vendemmia del rinomato rosso altoatesino, ritenuto non a caso tra i migliori blauburgunder italiani. Un evento, dunque, comprensibilmente emozionante. Sentimento di cui l’anfitrione non ha fatto mistero agli ospiti: “Pure per me è la prima volta che assaggio uno dopo l’altro tutti i millesimi del Sant’Urbano. E un po’ emozionato lo sono anch’io”, ha confessato sotto le volte del grande salone della tenuta sulla collina che sovrasta Egna (ma dal versante della valle opposto a quello di Termeno, ove ha sede la cantina), di fronte alle bottiglie dal 1987 al 2007. Con l’eccezione dell’annata 1996 che, come ha precisato lo stesso Martin, “vide una qualità non all’altezza e quindi il vino, pur prodotto, non fu imbottigliato”.
Quella di riposare su ambedue i versanti dell’Alto Adige è del resto la caratteristica che fa di Hofstaetter un caso quasi unico. Colpa, anzi merito, della genesi composita della proprietà. Di là, sul lato destro della valle, si trova infatti la tenuta già baronale di Kolbenhof – raccontano che il nobiluomo l’abbia perduta giocando a scacchi con il nonno della moglie di Foradori – venuta appunto dal ramo altoatesino della famiglia. Di qua, sul lato sinistro, le tre hof acquistate nel 1941 dal nonno paterno di Martin, Vittorio Foradori: Barthenau, Yngram prima e Yngram seconda. Quando il figlio di questi, Paolo, nel 1959 sposò una Hofstaetter, i due versanti si riunirono in un’unica azienda. Un fatto rarissimo da queste parti dove, sembra, da sempre le famiglie hanno terra e cantina da una parte sola dell’Adige.
Sarà forse grazie a questo privilegiato e doppio punto di osservazione che al giovane patron si attagliano alla perfezione i panni del disincantato sognatore del vino. O del pragmatico utopista. Quel che è certo è che Martin Foradori non ha i modi nè le sembianze dell’imprenditore rampante. E tantomeno quelli dell’ingenuo filosofo. A me pare essenzialmente una persona vispa e consapevole. Un genere raro al giorno d’oggi: “Sono altoatesino, non c’è dubbio”, mi disse tempo fa. “Altoatesino, ma di lingua italiana e con doppia cultura, grazie alla fortuna di avere avuto un padre trentino”. Trentanove anni, tre figli, moglie di Appiano, è amministratore dell’azienda di famiglia dal 1999, dopo esserci entrato nel 1992. Conflitti generazionali? Nessuno, assicura. Voleva diventare ingegnere enologico in Svizzera, ma dopo il diploma di perito agrario e un paio d’anni passati a fare pratica in Confederazione pensò bene di obbedire al richiamo del sangue e di rientrare a Termeno: “Non voglio dire di essermi sentito un predestinato – spiega – e neppure di essere stato travolto dalla vocazione, ma a un certo punto riconfluire in famiglia mi parve la cosa più ovvia e naturale”. La testardaggine e i forti legami con la terra di origine sono del resto due delle caratteristiche che Martin riconosce a se stesso e alla sua schiatta: “Mai fatti voli pindarici e mai progettati sbarchi enologici in altre regioni, come fino a ieri andava tanto di moda. Né Toscana e né Sicilia, dunque: sono convinto che rimarremo qui”. A Barthenau, ad esempio.
La Vigna Sant’Urbano è infatti un appezzamento di appena 3 ettari e mezzo ubicato nel cuore della tenuta, con vigneti che, in alcuni casi, superano i 65 anni d’età. Dopo la raccolta, ci dicono, le uve vengono per ¾ diraspate, mentre ¼ rimane intatto per la fermentazione in botte, che dura una decina di giorni e mantiene il mosto in costante contatto con le bucce. La maturazione in legno prevede due fasi distinte: un primo periodo di 14 mesi in piccole botti di rovere francese e un secondo di assemblaggio di 7 mesi in un’unica grande botte di rovere. Dopodichè il vino matura in vetro per ulteriori 12 mesi.

La degustazione comparativa è stata, oltre che divertente, illuminante nel mostrare il lento evolversi dello stile del vino attraverso le diverse fasi storiche vissute dall’azienda nell’arco del ventennio. Offrendo la riprova, al tempo stesso, sia di una impressionante continuità qualitativa, sia di una coesione produttiva che è raro incontrare in prodotti di successo come questo.
Se è vero infatti, come qualcuno rimprovera alla casa altoatesina, che il Vigna Sant’Urbano mostra nelle ultime annate una costanza molto marcata e market oriented, è vero anche che si tratta di un livellamento verso l’alto da cui – stando almeno agli appunti del nostro personale taccuino – perfino la vendemmia 2006 (meno felice rispetto ad altre e certamente la più debole dal 2000 in poi, splendido millesimo meritevole di 17/20) esce onorevolmente, spuntando alla fine un punteggio di 15/20. Acerbo, ma con grande stoffa e ottime promesse, anche il vino del 2007, che uscirà solo a primavera.
Tanto premesso, non c’è dubbio che l’assaggio delle annate più vecchie è stato quello che ha riservato ai fortunati degustatori la massima libidine. Memorabili ad esempio per complessità, equilibrio e solennità le bottiglie targate 1988 (17/20) e 1989 (17,5/20), magnifiche – e sorprendenti per freschezza e robustezza – quelle del 1991 (18/20) e del 1994 (18/20), ricche della stessa, inattesa polposità che si è ritrovata anche nell’annata 1997 (17/20) e soprattutto nel 1998 (18/20), capaci di una screziatura oggettivamente appassionante nella sua continua mutevolezza, sia al naso e in bocca.
Che altro aggiungere? Che anche le magnum di spumante Pinot Nero 100%, annata 2009, tirate in soli 800 pezzi e riservate agli usi aziendali “speciali”, ci sono piaciute molto per franchezza, piacevolezza e mancanza di orpelli.
Scusate se è poco.