Alla vigilia dell’inaugurazione della kermesse che per diciassette giorni avvolgerà il capoluogo toscano in una spirale di incontri, degustazioni, appuntamenti conviviali, dibattiti e perfino eventi teatrali “for and about” il (buon) cibo, fa piacere ricordare chi con qualche decennio di anticipo aveva capito il potenziale che l’enogastronomia poteva rappresentare per Firenze e tutta la regione. E dare merito agli organizzatori che non hanno voluto sottrarsi a questo tributo doveroso.
Comincia domani a Firenze la Biennale Enogastronomica (il programma è qui e gli appuntamenti interessanti sono moltissimi): in pratica più di due settimane di incontri dedicati agli appassionati di cibo, cucina, prodotti tipici, vino, birra, piatti tradizionali e a tutto il mondo – godereccio e culturale – ad essi legato, purchè declinato in salsa gigliata.
Kermesse di questo tipo sembrano del resto essere divenute di gran moda in Italia e, particolarmente, nel capoluogo toscano che, in varie formule, ne sciorina due o tre all’anno. Verrebbe da chiedersi cui prodest. E cioè a quale mulino (oltre che, ovviamente, a quello degli organizzatori) portino acqua queste manifestazioni.
Una prima risposta potrebbe essere semplice: a tutti. Visto che l’enogastronomia è un argomento che “tira” (parlata e praticata, a tavola e in tv, a casa e a ristorante), tanto vale cavalcarlo. Ne godono, almeno in teoria, il commercio, il turismo, i produttori (sempre in cerca di vetrine e ormai convinti dai fatti che il contatto diretto con il consumatore “funziona”, sia in termini di promozione che di vendite), le pubbliche amministrazioni (che, facendole proprie, acquisiscono una sorta di co-paternità delle iniziative) e gli sponsor, visto che di solito gli eventi ottengono una vasta copertura mediatica.
Resta da chiedersi se esse giovino anche al pubblico.
In apparenza, o meglio in superficie, giovano certamente: di solito c’è il pienone di visitatori alla ricerca di assaggi e di assaggini da piluccare (meglio se gratis).
Scavando un po’, però, le certezze si incrinano. Stabilire quanto un’iniziativa promozionale a favore della “cultura del cibo” contribuisca effettivamente alla crescita e alla conoscenza del pubblico in materia di alimentazione, qualità e origine dei prodotti, valore economico ed organolettico dei medesimi e via dicendo, appare piuttosto problematico. E forse è proprio questa la scommessa della Biennale, alla quale auguriamo il successo che merita e a cui parteciperemo volentieri.
Eppure non è di questo che voglio parlare. Ma – visto che l’edizione 2010 ebbe un’isolata progenitrice nel remoto 1976 – dello strano destino che, anche in materia di sostegno della tradizione enogastronomica toscana, spesso è toccato a chi è stato un precursore, un anticipatore. E per questo non di rado, all’epoca, un po’ snobbato. A volte apertamente sbeffeggiato. Nonché gratificato di epiteti non proprio amichevoli.
Ci riferiamo a Leo Codacci: giornalista, scrittore, critico, appassionato cultore di cibo, vino, ricette, “mangiari” toscani. Un personaggio emblematico, che tutti quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a conoscere e che ci ha lasciato alcuni anni fa.
Non sempre, tra i suoi coevi, Leo godeva, come si dice, di “buona stampa”. Qualcuno lo dipingeva come un opportunista, perfino un ammanicato, messo bene in certe segrete stanze del potere. Chissà, magari era vero. Non mi sono mai preso la briga di indagare. So soltanto che con me e qualche altro giovane giornalista agli esordi nel settore dell’enogastronomia egli fu sempre disponibile, prodigo di consigli, sorridente e amichevole. Non rinunciò mai a essere un propositore, a lanciare idee, perfino quando lui per primo capiva di essere troppo in anticipo sui tempi. Imbastì ad esempio, un ventennio almeno prima di tutti gli altri, quegli apparentemente scherzosi “processi al vino” – pensati invece per essere eventi in cui di vino si parlava e si faceva parlare davvero, a tutto tondo a da ogni angolazione, coinvolgendo vip e cattedratici, specialisti e produttori, comunicatori e politici – divenuti poi di gran moda in tempi recenti. Quello che Codacci organizzò nel 1989 (mi pare!) nella sala di Luca Giordano in Palazzo Medici-Riccardi, a Firenze, fu il primo in assoluto. E fu stordente: mai, in precedenza, il tema-vino si era avvicinato al grande pubblico mettendo sullo stesso piano dialettico, tra il serio e il faceto, questioni come qualità e salute, uso ed abuso, mercato e consumi.
Trovo lusinghiero, anzi davvero onorevole che, oggi, gli organizzatori della Biennale Enogastronomica Fiorentina diano a Cesare ciò che è di Cesare e menzionino esplicitamente Leo Codacci come il precursore, il padre putativo dell’iniziativa. Un riconoscimento tributato in modo aperto, con tanto di foto e di riquadro a lui dedicato nella home page della rassegna.
Bravi quindi allo Studio Umami, alla Confesercenti e a Leonardo Romanelli, ideatori del tutto, per questo gesto di umiltà e di riconoscenza verso chi ha dato tanto alla causa dell’enogastronomia in un’epoca in cui il mangiar bene era più o meno un sinonimo di crapula, di osti, di trattorie, di fiaschi, salami, sughi e tovaglie a quadri.
Leo ne sarà contento. E la Biennale avrà tutto da guadagnarci.