In un tragicomico gioco di specchi, i destini di giornalisti e agricoltori si intrecciano: tutti proclamano la “centralità” delle due categorie, ma nessuno si preoccupa di farle sopravvivere nel modo più semplice. Cioè dandogli una possibilità di reddito “equo”.
C’è il giornalista che, per continuare a essere tale, si reinventa a fare lavori diversi: pr, organizzatore di eventi, consulente, esperto di qualcosa, guida turistica. E c’è l’agricoltore che, per continuare a essere tale, ormai da vent’anni prova a riciclarsi in attività che non sarebbero propriamente le sue, ma se le fa “garbare“: produttore di energia elettrica, seminatore di pannelli solari, giardiniere (qui) per conto della comunità, albergatore, oste, giullare. Nell’uno e nell’altro caso, insomma, di scrivere articoli e di coltivare la terra non se ne parla.
Due mestieri quasi agli antipodi, uniti però da un’insolita, medesima sorte: doversi lambiccare il cervello per sopravvivere.
La causa è semplice e condivisa: mancanza di reddito e di prospettive di potersene procurare uno.
Giornalisti e agricoltori, del resto, sono accomunati anche da un altro elemento: la testardaggine.
Ai primi l’idea di essere giornalisti piace da pazzi e non rinuncerebbero all’inebriante qualifica per nulla al mondo, dignità compresa. Infatti in gran numero si accaniscono a lavorare per due soldi e spesso gratis, finanziando così quelli che invece dovrebbero pagarli per scrivere.
I secondi hanno forse dalla loro una ragione più tangibile e concreta per insistere, cioè la terra, ma sono parimenti accecati da un latente perbenismo e da un pur lodevole imperativo morale: siccome lasciar languire i campi al sole, abbandonandoli alla macchia come la logica e l’economia suggerirebbero, “non sta bene”, “è un peccato” e “come si fa?“, ci si trasforma in missionari agricoli e si coltiva in perdita o, ben che vada, in pareggio.
Ci si abbevera e ci si consola con la gloria.
La cosa strana è che ciò non appaia evidente non solo ai diretti interessati (i quali altrimenti non sarebbero tali), ma neppure agli osservatori. E nemmeno in momenti di campagna elettorale come quello corrente, che dovrebbe spingere i politici (e anche i “partiti” dei giornalisti, visto che pure per l’Odg le elezioni sono alle porte) a fare almeno delle vaghe promesse.
Ci ho ripensato proprio stamattina, rileggendo un inciso del presidente dell’Accademia dei Georgofili, Franco Scaramuzzi, che di agricoltura se ne intende: “Il problema generale e più urgente da risolvere è rappresentato dalla difficoltà di conseguire un reddito sufficiente a sopravvivere. E’ questa la battaglia prioritaria da vincere. Nessuno può pretendere che gli agricoltori continuino a svolgere i loro vari ed importanti ruoli multifunzionali di interesse pubblico (non soltanto produttivi), senza trarne un reddito proporzionato al proprio impegno. Né si può pretendere, a queste condizioni, un ritorno al lavoro dei campi, neppure di coloro che lo avevano lasciato per migrare nei centri industriali e che oggi si ritrovano disoccupati“.
Ineccepibile. Tradotto: sbrighiamoci perchè, scomparsi gli ultimi che resistono, nessuno li sostituirà.
Riflettendoci, non dovrebbe (o non avrebbe dovuto) essere questo anche il senso della battaglia e della susseguente legge sull’equo compenso, di cui tanto si dibatte tra i giornalisti e su cui l’apposita commissione sarà presto chiamata a pronunciarsi? Cioè garantire alla prestazione giornalistica una remunerazione tale che, per quanto bassa sia, possa consentire la sopravvivenza economica al suo autore?
Intendiamoci: da garantire è il compenso della singola prestazione (o del prodotto agricolo, nel caso del mondo rurale) e non il reddito in sè del giornalista o dell’agricoltore, altrimenti sconfineremmo nell’ambito delle categorie mantenute artificialmente in vita. Il che potrebbe essere anche una scelta politica legittima, ma diversa da ciò di cui stiamo parlando.
Mi sembra dunque che la questione sulla quale nell’ambiente attualmente ci si accapiglia (cioè la soglia di “equità” del compenso: 14 euro? 24? 34? 44? Tombola!) sia del tutto mal posta.
Garantire un reddito significa garantire l’esistenza di condizioni economiche in cui il giornalista o l’agricoltore, nel pieno rispetto e nella piena consapevolezza del rischio professionale e/o d’impresa che egli si assume per il fatto stesso di avviare un’attività e di svolgerla, abbiano l’opportunità di esercitare in modo redditizio il proprio mestiere.
Cosa molto diversa dal dare un reddito a tutti o soldi a tutti, indiscriminatamente, come molti ambirebbero avere.
La libera professione e l’impresa non sono medicine che il dottore ha ordinato di prendere, ma scelte che il singolo fa e di cui deve accettare le regole, purchè in un contesto di praticabilità che, oggi, per il giornalismo autonomo e per certa (maggioritaria) agricoltura non ci sono.
Quindi, delle due l’una: o tale contesto, per volontà politica, si crea, oppure si accetta, senza ipocrisie, che certe categorie si estinguano per morte naturale.
Sarebbe bello se candidati premier, capataz di partito e conducatores giornalistici si esprimessero sul punto, senza svicolare.