di FRANCESCA LANDOLINA
Il battesimo del fuoco con l’Egitto non è mai facile. Meno ancora con la città della Biblioteca, già cosmopolita. Questo il racconto di una giovane viaggiatrice che lì ha scoperto come il luogo della libertà può essere la toilette.

Finalmente lì, in quella città che ha fatto grande la storia, Alessandria D’Egitto.
Giungo con un team che parte dalla Sicilia per un progetto di promozione e valorizzazione della dieta mediterranea, patrimonio Unesco. L’emozione di mettervi piede per la prima volta è tanta. Voglio scoprirla. Il momento è difficile per girovagare tra le sue vie. Ma qualcosa dentro di me mi dice che voglio provarci.
Tre giorni di lavoro intensi. Tutto ben pianificato. Un grande hotel blindato ad accoglierci e poi giornate di studio e workshop nella famosa biblioteca alessandrina e all’Università Pharos. Il tempo libero non c’è. Neanche la sera. Cene guidate. Spostamenti in pullman, tra strade in cui sfrecciano macchine e taxi selvaggi. Non ci sono regole. Traffico, giungla, sono eufemismi. Tassisti che adescano i giovani uomini del gruppo invogliandoli al proibito, alcol (magari una birra stella o una tequila), fumo e anche altro. Tutto sotto banco. Di notte, il proibito si svela. Non ci sono donne in giro, né famiglie. Che città ipocrita, penso. La vera Alessandria qual è? La gente? Quando vedrò la città “velata”? Mi chiedo.
Attendo quel momento. Verrà. L’attimo in cui vedrò qualcosa di vero.
Accade. In biblioteca. Una struttura all’avanguardia. Entriamo. Uomini armati fino ai denti ci invitano a fare i controlli e siamo dentro. Intanto nell’atrio, spazioso e armonico, un via vai di giovani, ragazze soprattutto, velate, che guardano curiosi. In coda all’ingresso anche una scolaresca di bimbi, e un gruppetto di ragazzine. In disparte mi osservano mentre mi siedo a farmi scaldare dal sole in un muretto esterno. Il mio look, jeans, anfibi e giubbotto di pelle da motociclista le cattura. Non capiscono se a loro piaccio o se mi vedono come una “scostumata”. Gli uomini sì. Troppo “occidentale”.
Mentre le osservo, ci scambiamo un sorriso. Con me ho sempre la mia macchina fotografica. Vorrei cogliere ogni istante di ciò che accade. Improvvisamente, si avvicinano. Sono munite di I-phone, occhiali da sole all’ultima moda. Ci provo. “Posso scattarvi qualche foto?”, chiedo. Domanda magica. Non vedevano l’ora. In un attimo sono in posa, sghignazzano, sembrano civette. Ma che succede? Le insegnanti le guardano, non dicono nulla ma vigilano. Cominciamo a far foto. Poi d’istante, sono io a diventare il loro soggetto da fotografare. Neanche fossi una star. Escono i loro Iphone tecnologici e fanno a gara a chi dovrà farsi la foto con me per prima. Mi sento un po’ un fenomeno da baraccone. Compiaciuta per certi versi, ma stordita al contempo. Qualcosa non mi è chiaro. Prima la diffidenza, il timore, il distacco, gli occhi del giudizio, poi una vicinanza che quasi mi soffoca. Più di mezzora rapita da clic. Poi il richiamo dell’insegnante. Vanno via, io entro in biblioteca per il mio lavoro.
Non credo ai miei occhi. Quanta magnificenza, modernità. Oggetti d’arte e macchine che stampano libri secolari in meno di 5 minuti. Da non crederci. Milioni di volumi intorno e studenti, soprattutto donne. Composte, velate. Il silenzio è assoluto. Tutto sembra molto composto. Ma non mi sento soddisfatta, i giorni passano e non mi pare che possa finire lì. Sono inquieta. Quale Alessandria si vela sotto questo apparente silenzio?
Poi la scena più emozionante che possa capitarmi. Il momento improvviso che attendevo. Faccio una pausa e vado alla toilette. Apro la porta e ho una visione. Io, occidentale alla moda, mi meraviglio davanti ad una schiera di ragazze davanti allo specchio. Tutte munite di trousse. Tolgono il velo, ritoccano il trucco. I miei occhi vedono ciò che neppure gli uomini “controllori” di quella città censurata vedrebbero mai. Nella città velata ho accesso ad un luogo a cui gli uomini non possono giungere. Ed è uno spasso. Quasi quasi mi sembra di far loro un dispetto e questa percezione mi diverte. Ma mi sento commossa. Da donna intuisco il senso di quei gesti, così femminili, così desiderosi di nutrire la propria identità. Altro che veli. Lì le donne sono e vogliono vedersi donne, libere. Nutrono la loro femminilità e anche la loro vanità. Ho con me la macchina fotografica. Vorrei immortalare quella scena. Ma non posso e non mi sembra rispettoso. Una di loro però si fa una foto con me.
Il massimo che riesco ad ottenere. E dire che io una trousse non ce l’ho neanche dietro. E neppure a Palermo ai tempi dell’università avevo mai visto un simile rituale. Tutte, proprio tutte, con i loro trucchi a marcare il make up sugli occhi, la parte del viso che possono meglio valorizzare.
Esco con l’emozione in corpo. Mi sento privilegiata per quello che i miei occhi anno visto. È un momento solo mio. E nessuno può togliermelo. Qualcosa mi dice che Alessandria è più complessa di quello che sembra. C’è troppo ordine lì dentro. Tutto sotto controllo.
Esco. E’ un attimo, sento urlare. Contestatori in cammino. Mi fiondo fuori. Mi avvicino. Un anziano cerca il mio obiettivo, mi parla. Nel frattempo vengo richiamate dalle guardie. Devo fare attenzione. Il clima non è più così calmo. La quiete si è infranta. Il velo squarciato. Almeno quello del silenzio rarefatto. Ma è lì la città. In quelle contraddizioni che mi erano giunte fin dalla scena delle ragazzine che chiedevano foto. Ho poco tempo. Qualche scatto ostinato. L’anziano mi chiede una foto, protesta, ma intanto trova un attimo per sussurrarmi che sono “beautiful” ma che devo mettere il velo. Mi richiamano. Rientro. La quiete.
Il lavoro riprende nei giorni che seguono, tra conferenze, pranzi, visite guidate, ed io non sono soddisfatta. Sono ad Alessandria per la prima volta in vita mia. Cosa mi porto dentro? Devo girarla. C’è un velato tormento che mi attrae. Lo stesso che sento vibrare nell’aria alessandrina. Arriva l’ultimo giorno. Un pomeriggio libero. Prendo la macchina e non ci penso un attimo. Trovo un compagno d’avventura disposto a girare con me la città. Ci fiondiamo nel cuore vivo dei mercati. Comincio a guardarmi intorno mentre scanso i taxi e le macchine impazzite. Mi osservano dalla testa ai piedi. Sguardi ammiccanti, invadenti, accoglienti, amici. Di tutto. Bambini dall’aria tenera, sporchi e poverissimi. Uno di loro ci segue. Gli compriamo un giocattolo e vediamo la felicità nel suo volto. I bar stracolmi di uomini che fumano, leggono i giornali. Il mio passaggio è la novità del giorno. Non ci sono turisti, né occidentali. Non ci sono molte donne in giro. Qualcuna fa la spesa. Ma tutte velate. Alcune con il burqa. Tenute d’occhio dagli uomini al loro fianco. I loro sguardi cominciano ad infastidirmi. Che sbruffoni! Leggo nei loro occhi desiderio e disprezzo. Con i miei anfibi e il mio giubbotto di pelle, la mia macchina fotografica, sono anni luce lontana dalle loro donne. In un bar ne trovo molte, tutte attorno ad un uomo baffuto e con la pancia. Non mi piace la sua aria boriosa. Penso sia circondato dalle sue moglie e lui spavaldo chiede un servizio fotografico. Intorno anche i suoi bambini. Gli uomini vicino chiedono di vedere le foto, ma l’aria non mi piace. Nel frattempo, accanto al carcere, a pochi passi da lì, una nuova rivolta. Sono nei pressi del mercato di Mansheya. Non posso fermarmi ancora. Aumento il passo e vado via. Tra i mercati proseguono gli sguardi pesanti di uomini, occhi che giudicano e che bramano. Ma cosa avranno visto mai? Che c’è di strano nel girare con una macchina fotografica in jeans, giubbotto di pelle e anfibi. Io e il mio collega al fianco proseguiamo a scattare noncuranti. Intorno tanto squallore, strade sporche, edifici fatiscenti e il vecchio tram giallo. Ma la cosa bella è che strada facendo facciamo incontri diversi. C’è il signore che vende assab, una bevanda fatta con succo di canna da zucchero. Ci mostra la macchina da cui lo estrae e alla fine ce ne offre due bicchieri. Un volto amico. Comincio a sorprendermi. E non è il solo. Una donna con amiche e il suo bambino si lasciano fotografare, un’anziana signora vorrebbe offrirmi della frutta. Un pescivendolo ci invita nella sua bottega mostrandoci il suo lavoro. E poi una sosta. Abbiamo girato tanto, resta poco tempo. Ma ancora manca un rito. Il tè e il narghilè della strada. L’ultima concessione ad Alessandria. Sentiamo che l’uscita momentanea dal gruppo ci ha dato tanto, ci sono un buon reportage e tante emozioni provate tra la gente. Ci fermiamo in un locale. Ci invitano ad entrare. Un’accoglienza mai vista. Le persone sembrano aver mutato espressione del volto. Il clima è amichevole. Anche questa volta riceviamo un dono della gente di Alessandria d’Egitto. Sono confusa. Ma quale volto ha questa città in tormento? Finiamo il giro tra i mercati e rientriamo in taxi. Si contratta il prezzo, si sfreccia tra le strade bloccate dal traffico. E arriviamo nella magnificenza blindata dell’Hotel. Torna la quiete rarefatta e dorata. Sfarzosa. Pacchiana. Obsoleta. Siamo pronti per una cena al Fish Market, ristorante di pesce una volta noto. Oggi un po’ deludente. In pullman al rientro in hotel, guardo fuori dal finestrino. Si intervallano monumenti illuminati, palazzi fatiscenti e un mare che toglie il fiato a fare da cornice. A poche ore il volo di ritorno in Italia. Dentro il mio cuore, sento di aver conservato tanto. E il più l’ho raccolto per le strade. E in quel posto inaccessibile agli uomini, in biblioteca.
Sono in volo, guardo per l’ultima volta Alessandria, la lascio in un momento travagliato, mentre cerca di trovare un’identità che al momento non è trasparente. C’è un velo che la copre. Così come copre le donne. Sotto di esso, ci sono la voglia di essere ciò che non è, le censure, le proibizioni e l’illecito consentito, le proteste, la voglia di libertà e di repressione, di integrazione e di chiusura, di pace e di lotta. In bocca al lupo Alessandria. In bocca al lupo Egitto.