Note a margine di una lezione sul giornalismo investigativo. Di cui ho imparato molte cose, ma su cui non mi sono tolto i dubbi. Tra tutti, uno: alla fine, che differenza c’è con il giornalismo “normale”?

Attendo di leggermi il libro (“Esplorare internet – manuale di investigazioni digitali e open source intelligence“, Minerva Edizioni, 264 pagine, 29 euro), ma nel frattempo non posso non farmi una domanda fondamentale: alla fine dei conti, che differenza c’è tra il giornalismo “normale“, quello cioè che tutti i giorni migliaia di bravi professionisti praticano o dovrebbero, in teoria, praticare, e quello “investigativo“?
In altri termini: sono io che vaneggio o essere giornalista comporta appunto, da sempre, indagare, cercare, approfondire, confrontare, verificare fonti e notizie? Quindi, perchè dovrebbe esistere e in che si differenzia il genus investigativo del giornalismo?
Se ne avessi avuto il tempo, avrei posto il quesito direttamente ai diretti interessati, i colleghi Leonida Reitano e Rosaria Talarico, che ieri a Firenze hanno tenuto una lunga lezione sull’argomento.
Dalla quale sono emerse due cose fondamentali per i giornalisti di oggi.
Primo: internet è un formidabile strumento per la ricerca delle informazioni e per il confronto delle stesse, in quell’opera di ricerca della verità dei fatti che costituisce il lavoro del giornalista.
Secondo: senza un’adeguata conoscenza della rete, dei suoi meandri e delle leve che essa offre, gran parte delle opportunità di cui la medesima è ricca rimane inaccessibile ancorchè “aperta”, cioè teoricamente accessibile a chiunque.
Da qui l’evidente necessità, per il professionista serio, di impadronirsi al più presto delle nozioni di base in campo digitale.
Ma si tratta comunque – ecco la mia eccezione – di una questione di uso dei mezzi e non di metodo. Si tratta di usare gli strumenti messi oggi a disposizione dalla moderna tecnologia per fare – meglio e prima, non c’è dubbio – un lavoro che però è esattamente il medesimo di quello fatto in passato da generazioni di cronisti: cercare e spulciare, individuando nella massa bufale e depistaggi, travisamenti e camuffature, verità e tarocchi.
Faccio un esempio, riprendendo quello fatto da Reitano quando ha spiegato come, attraverso il confronto informatico tra banche dati on line (ad esempio il registro delle imprese e i dati anagrafici o le visure catastali), sia possibile risalire all‘identità di chi, in realtà, c’è dietro il paravento di una ragione sociale o di una società.
E chiedo: ma non è esattamente lo stesso lavoro che il vecchio, caro visurista faceva sul cartaceo quando andava a entomologizzare gli atti nelle vecchie conservatorie, o i dati dei casellari, o le schede delle cciaa?
Certo, con il computer si fa prima, ma dove sono la differenza e la specialità di questo lavoro rispetto al solito?
Era, e rimane, qualcosa a cavalcioni tra l’archivistica e la ricerca, mediato dalla capacità di mettere in relazione dati e notizie che, sempre in teoria, dovrebbe essere parte fondamentale del bagaglio professionale del giornalista.
Altra eccezione: dell’enorme massa di informazioni contenute nella rete, solo una parte è “nativa” digitale, mentre un’altra, credo maggioritaria, è ancora frutto di una trascrizione dal cartaceo al digitale. Chi mi garantisce allora che nel passaggio non siano stati commessi errori più o meno maliziosi? Nel web ci sono davvero sempre notizie “di prima mano” o apprendibili come tali?
Quindi, delle due l’una: per chi fa il nostro mestiere aggiornarsi, anzi fare un vero e proprio salto culturale in avanti in materia di utilizzo dei mezzi digitali, è indispensabile, prima ancora che doveroso. Diciamo perfino, in chiave di aggiornamento professionale, obbligatorio.
Ma al di là di questo, continuo a non vedere differenze tra il giornalista Sherlock Holmes e il giornalista C.S.I.
Elementare o no, Watson?