Ieri è morto Bert Jansch, chitarrista extraordinaire e figura centrale della musica folk (e non solo) dell’ultimo mezzo secolo. Molti lo ameranno inconsapevolmente, non immaginando che la sua influenza potrebbe aver reso grandi i musicisti che oggi amano. So long.
Soundtrack: “Blackwater side“, Bert Jansch
Buffo: senza sapere nulla della malattia incurabile che lo affliggeva (apprendo oggi) dal 2009, ho passato gli ultimi dodici mesi in preda una febbrile, inspiegabile sindrome da gap filling nei confronti dei dischi di Bert Jansch, che ci ha lasciato ieri ad appena 68 anni.
Non che me ne mancassero molti dei tantissimi della sua discografia. Ma quella manciata era comparsa dal nulla in offerta speciale sui siti specializzati ed io a poco ho cominciato a comprarli, uno dopo l’altro, andando a studiarmi a ritroso l’opera di questo fenomenale chitarrista. Un personaggio davvero leggendario, che, pur essendone praticamente coetaneo, ha influenzato profondamente tutta la generazione dei grandi maestri dello strumento degli anni ’60.
Eppure Jansch non aveva niente del divo. E sarebbe riduttivo descriverlo solo come un virtuoso della chitarra.
Schivo, molto british, interprete sensibile e duttile, aveva navigato a lungo ed ecletticamente, galleggiando sempre sulle onde schiumose e placide del folk britannico e concedendosi lunghe traversate passate sulla rotta di una brillante carriera solistica, il sodalizio con un altro guitar hero, John Renbourn, l’antica amicizia con la regina scomparsa della musica tradizionale inglese – quella Ann Briggs grazie alla quale quasi cinquant’anni fa approdò al mondo discografico – e naturalmente l’avventura dei Pentangle, con il loro raffinato suono jazzato e gli intrecci filigranacei di chitarra acustica a segnare una stagione irripetibile per fertilità e per frutti raccolti.
Ora, nel momento del commiato, è difficile non richiamare alla memoria le sue esibizioni italiane con i ricomposti Pentangle nei primi anni ’80, la voce di Jaqui McShee sul tappeto salmodiato degli arpeggi, la galleria delle copertine di vinili indimenticabili, certe foto in b/n così sixties, con la sigaretta in bocca e quell’aria da pacato filosofo con un lampo di furia negli occhi.
Prendere atto di una morte è sempre difficile. Prendere atto della scomparsa di qualcosa che ha sempre dato la sensazione di esserci comunque, lo è ancora di più.
Aspetto di leggere l’orazione funebre che ti reciterà Anne Briggs, riaffiorando in silenzio da qualche sperduto villaggio delle isole.