All’indomani della stagione che ha segnato fatti inediti come l’addio di Ratzinger e il bis di Napolitano, solo i giornalisti sembrano (auto)condannati a un immobilismo che forse neppure l’affluenza di massa alle urne per il rinnovo dell’OdG potrà incrinare.
L’arte del riciclaggio è finissima. Prima degli ecologisti-predicatori, per secoli l’hanno praticata le massaie in cucina, i contadini in campagna e gli indios nelle foreste. Per decenni, la politica.
Il mondo del giornalismo, che del riciclaggio e soprattutto dei riciclati è un maestro, arriva dunque quinto: nemmeno medaglia di legno. Ma la tecnica che utilizza è la più raffinata di tutte.
Attorno a noi ogni cosa cambia. Perfino i proverbi mutano: “Morto un Papa, se ne fa un altro” non si può più dire, dopo che abbiamo avuto il primo pontefice dimissionario da 800 anni a questa parte. Addirittura i Presidenti della repubblica, già “notai settennali”, sono di colpo diventati istituzionalmente attivi fabbricandosi i premier in casa e spuntando (dopo averne creati i presupposti politici) doppi mandati.
Solo l’ambiente giornalistico, i suoi riti e le sue strutture paiono immarcescibili.
Di riformare l’ordinamento professionale non se ne parla: vagheggiata da varie legislature, tra infiniti emendamenti l’iniziativa passa da un parlamento a un altro, tutti di durata troppo breve o troppo in altre faccende affaccendati per occuparsi della bazzecolare questione (con gran gioia, va detto, di buona parte dell’apparato direttamente interessato). Se per distrazione o volontà superiore capita l’opportunità di ottenerla per vie traverse, si fa in modo che l’occasione passi senza colpo ferire.
La campagna elettorale per le elezioni OdG di fine aprile infuria da mesi, tra la finta indifferenza generale e il gioco a nascondino delle candidature per i vertici. Poi toccherà alla Casagit.
Ma il retrobottega degli organismi interni non è da meno. Ultraottuagenari che nell’ordine e nel sindacato occupano gli scranni da “consiliature” (così pare si dica) multiple, consiglieri che al tempo stesso siedono anche in altri consigli professionali (!), presidenti di un ente che diventano segretario di un altro e viceversa, travasi di poltrone e di cariche tra OdG, Federazione, Inpgi e Casagit, fuoriusciti dalla porta che rientrano acrobaticamente dalla finestra, giochi di sponda professione-partito, consiglieri in scadenza che si ricandidano perchè “vogliono portare a termine” il lavoro che non hanno fatto in tempo a concludere durante il mandato, sindacalisti-giornalisti finchè morte non li separi, commissioni, vicecommissioni, sottocommissioni della più fantasiosa natura e inutilità, gruppi di evanescente specializzazione (ma impareggiabili nel produrre cariche formali). Il tutto ripetuto a cascata, uguale identico, con gli stessi minuetti e gli stessi giochini, nelle circoscrizioni regionali. Nemmeno ci fosse Gianburrasca ad aver messo la pece sulle seggiole. E attorno, come api sul miele, gli stessi volti e gli stessi nomi, con un turn over (quando ce n’è uno) di tale esasperante lentezza da far sospettare che avvenga solo avuta la garanzia che il successore abbia assimilato l’eredità del predecessore e sia in sostanza diventato come lui, quindi garante della assoluta continuità.
Proprio in questi giorni, il movimentista ma ingenuo Grillo ha sottovalutato le mille vite della politica di mestiere e loro l’hanno messo abilmente nel sacco.
Noi, invece, nel sac ci siamo da un pezzo. Anzi, siamo proprio nel cul del sac.
E’ un ricircolo, sembra un termosifone.
Il che mette in ombra anche l’operato di quelli – ci sono, ci sono – che hanno agito bene e fanno quindi bene a ricandidarsi e a restare lì. Ma è poca roba quantitativamente, perchè il giro delle alleanze ti risucchia, il gioco delle correnti ti sommerge, il mastice dell’ideologia ti condiziona.
Tra qualche settimana avremo dunque le elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Odg. Una sorta di oligarchia camuffata visto che, alla fine, per il sistema dei turni “finti“, degli apparentamenti, delle liste organizzate e dei santini ficcati in tasca ai pochi ai quali non è ancora stato detto chi votare, come succede da sempre gli elettori che votano, e quindi pesano, sono qualche migliaio, spalmati su venti regioni. Per essere eletti possono bastare manciate di voti, che di solito l’appartenenza a un “partito” giornalistico garantisce per default. Diversamente, adieu.
Una possibile soluzione per rompere il meccanismo perverso che in teoria candida i singoli ma in realtà candida le fazioni sarebbe convincere i colleghi ad andare a votare in massa, fatto che spariglierebbe molto il giochino dei quorum, dei pacchetti di voti e delle soglie di elezione precalcolate.
Ma il punto è: come convincerli? E poi a votare chi, se i singoli finiscono quasi sempre per essere inseriti, magari a loro insaputa, in alleanze trasversali e “ampie intese” più grandi di loro?
Così, alla fine, molti potenziali eleggibili rifuggono dalle candidature e gli altri disertano le urne.
Per il gongolamento dei signori dei santini e la disillusione di chi, come me, non ama il sistema e gli incasellamenti.