Nel 2014 ricorrono i quarant’anni della morte di Nick Drake, artista sepolto prima dall’oblio e poi da una insopportabile retorica conformista. Esistono invece attendibili sintomi che le cose stiano diversamente. Ho deciso: andrò a scoprirlo. Di persona.
Soundtrack: “From the morning“, Nick Drake
Erano tempi in cui o c’eri o vivevi delle memorie altrui. Le fonti di informazione non esistevano, riviste a parte: senza google, articoli e foto andavano di fotocopia. E, prima, bisognava trovarli. In un mondo rarefatto in cui il r’n’r’ era ancora alla prima generazione, fuori (ma proprio fuori!) dalla cultura corrente e senza neppure i ricordi dei fratelli maggiori. Libri? Al massimo, pallidi manuali mainstream oriented. Quindi o sapevi o non sapevi. Recepivi o non recepivi. Ricerche spasmodiche. Scaffali frugati febbrilmente. I dischi, se esauriti, non si ristampavano. Al massimo li registravi da chi li aveva, sulle cassette. E certi dischi non li aveva nessuno. Ricordo di aver setacciato l’Italia per avere Live Dead, trovato dopo anni di desiderio sul mercato di importazione.
Quando nel 1969 uscì il primo disco di Nick Drake, avevo nove anni. Ne avevo 10 quando uscì il secondo e 12 al terzo. Quand’ero quattordicenne, e avevo appena comprato “Red” dei King Crimson, il loro “Pink Moon”, lui morì. Era il 25 novembre 1974.
Insomma ero arrivato tardi.
E il suo mito, ancora riservato ai pochissimi, veleggiava tra le brevi e le lettere al direttore scritte dai più grandi e da chi, appunto, “c’era stato”.
Poi, nella primavera del 1979, esce “Fruit Tree“, il cofanetto postumo che riuniva i tre album e un pugno di inediti.
Lo comprai per corrispondenza (ventiquattromilalire, mi pare) e mi arrivò proprio nel mezzo di quella soleggiata e solitaria estate, profumata d’asfalto, giusto a cavallo dell’esame di maturità.
Oscurò tutto, esame compreso. Un flash incancellabile. Dischi imparati a memoria, testi tradotti in notti insonni di esegesi.
Poi, ieri sera mi sono imbattuto di nuovo, come ogni tanto mi capita (ad esempio, qui), in Nick Drake.
Un po’ svogliatamente ho cliccato su “From the Morning“, convinto di sapere già tutto, di aver sviscerato e assimilato ogni nota della canzone. Un distico della quale, “and now we rise / and we are everywhere“, è scolpito sulla pietra tombale di Drake, nel cimitero della chiesa parrocchiale di Tanworth-in-Arden, nel Warwickshire. Pura Inghilterra.
Mi sbagliavo, è ovvio.
Perchè il pezzo, registrato in presa diretta col registratore di casa, galleggia, si dilata, echeggia, rimbomba poggiandosi sull’uso ossessivo delle corde alte, si arrampica su una voce profonda come il respiro, che fluisce con naturalezza e pacatezza disarmanti. L’arpeggio sugli acuti invece intesse ossessivamente le trame, smentisce i luoghi comuni, scolpisce come una lama che a colpi secchi e regolari affonda nella dolcezza di un legno friabile, crea forme e genera crepe, modella suoni, sagoma pieghe, rastrema panneggi, ferisce, s’increspa, sostiene, ritma, sottolinea, dà voce all’inquietudine visionaria di un’alba che si affaccia e di una notte che pian piano, dolcemente, cade “tutto intorno“. E poi noi che ci leviamo e siamo ancora “tutto attorno”, lei che vola (ma lei chi?), ed è anch’essa ovunque, nei panorami saturi di colori e nelle interminabili notti estive passate a giocare il gioco “che il mattino ci ha insegnato“.
Il punto però è scoprire quale fosse il gioco, quali le fondamenta emotive dell’artista, da qualcuno definito confessionale. “From the morning” è del resto l’ultima canzone dell’ultimo album, complesso e ostico, e non manca chi ci ha visto un testamento spirituale, un epitaffio a se stesso.
Ma il tempo degli indovinelli e delle congetture oleografiche forse è finito. E sarebbe ora di scavare meglio, togliere finalmente il velo, arguire le verità che egli non volle, nè forse potè, confessare.
A quarant’anni dalla morte, viene voglia insomma di riaprire la ricerca partendo dal fondo.
E a me viene voglia di partire.