Della musica dell’antica Grecia, come dell’antica Roma, esistono pochissime partiture. Nel 1979 – ero studente di liceo classico in procinto di maturità – uscì un disco che ne conteneva tutte le esecuzioni. Ovviamente lo comprai.
Correva l’anno 1979, a occhio e croce tarda primavera. Città assolata, quasi accecante.
Esame di maturità alle porte, ma patemi nessuno.
Studiavo invece, voracemente, le riviste musicali. Non solo quelle rock. Leggevo sui giornali anche le sezioni di classica e di jazz, perchè volevo imparare, approfondire pure ciò che seguivo meno scientificamente, convinto com’ero (e ancora sono) che conoscere sia sempre fondamentale per capire meglio ciò che già si sa.
Insomma sfogliavo una rivista. Stereoplay, salvo errori.
Mi imbatto in una recensione: la musica della Grecia antica.
Folgorazione: per me, studente di liceo classico che all’orale avrebbe portato letteratura greca come prima materia, l’argomento era di irresistibile interesse. E fascino, aggiungo. Si chiamava “Musique de la Grèce Antique“. Etichetta: Armonia Mundi. Esecutori: Atrium Musicae di Madrid.
Scatta la caccia, ma ci vuole una premessa.
All’epoca, i dischi si compravano in negozio, direttamente o, molto più di rado, per corrispondenza. Le informazioni si trovavano sulla stampa, se e quando c’erano. Niente rete, niente Google, nulla che ti aiutasse tranne la tenacia e la pazienza.
Vado nella migliore rivendita cittadina di vinile classico, ma ignorano di cosa io stia parlando. Mi dicono di tornare. Torno e mi dicono di tornare ancora. La terza volta, eureka!, l’hanno trovato. Nel senso che hanno scoperto come e dove procurarselo. Costa uno stonfo ma lo ordino lo stesso.
Comincia così l’interminabile attesa. Nel frattempo, cerco di saperne di più sull’argomento. In libreria, niente. Ripiego sulla biblioteca, l’infallibile Marucelliana. Trovo qualcosa di antico e dotto: fotocopie e via a studiare (le fotocopie, mica per la maturità).
Dopo tre settimane, il disco è nelle mie mani. Bellissimo, apribile, in copertina la riproduzione di un vaso attico con scene di musica, dentro e in un folder di quattro pagine ampie note storico-esplicative. Della teoria musicale greco antica, spiegano, sono rimasti molti testi, ma pochissime partiture e l’lp è il primo a contenere le incisioni di tutte insieme, unitamente ad ancora più rari frammenti di musiche romane.
L’ascolto ovviamente è ostico, ma affascinante. Sonorità desuete anche per un orecchio abituato alle stranezze e alle dissonanze come il mio, formato con anni di interminabili ascolti contemporanei, free jazz, dodecafonici, avanguardia.
L’effetto però è immediato. Scattano le fantasie, si moltiplica l’interesse. Si vagheggia, con un amico, un viaggio nell’Ellade che abbia quel disco come colonna sonora. Non si farà mai, è ovvio.
Eppure, a distanza di almeno vent’anni dall’ultima volta, riascoltare questo disco mi ha dato ancora un vero shock. Una sorta di rock and roll shock, a dire il vero. Come “I can’t control myself” dei Troggs sentito per caso a 12 anni. Come “In the court of the Crimson King” sentito (meno per caso) a 14. O come “Baby Blue” dei 13th Floor Elevators sentito, dopo profonde esegesi cartacee e discografiche, a 17. Flash epocali, davvero.
Del resto, appena un anno prima, a Prato, mi ero visto la rappresentazione in animazione de Le Baccanti per la regia di Luca Ronconi. Ed era stato un altro flash scioccante: “Sono venuto da Tebe e sono figlio di Zeussssss…“.
Tutto filava dunque, in qualche modo. Sequenze. Susseguenze. I nodi si annodavano. Un’altra tessera era andata al suo posto. Era come se, di colpo, Euripide si fosse messo a suonare il rock and roll.
E il disco è ancora qui vicino che gira.