di URANO CUPISTI
Ultima tappa del viaggio, da Chiloè, via terra (e bus) di nessuno, a San Carlos de Bariloche, la “Disneyland delle Ande”. Con molte domanda e una rispsta finale.

 

La luce del mattino inonda Puerto Montt e lo riempie di vita. È il giorno che dedicherò alla visita dell’Isola di Chiloè, silenziosa e riservata, fuori dal mondo.
Secondo un mito mapuche, nelle giornate di nebbia , è possibile incontrare, nel traversare il braccio di mare che separa l’isola dalla terra ferma, il Caleuche, la nave fantasma che appare e scompare senza lasciare traccia. Come in tutte le leggende che si rispettino poche le persone che possono vantarsi di averla vista e raccontare così “la luce e la musica portata nelle esistenze degli abitanti di questa remota isola cilena”.
Attracco ad Ancud, la vecchia capitale. Il rudimentale traghetto, un chiattone di pionieristica memoria, ha navigato per circa un’ora, scortato dai giochi di foche e leoni marini. Qualcuno di cui non ricordo il nome, compagno di traghetto, mi ha ricordato che “finalmente verrà costruito un megaponte che collegherà le due sponde”.
Isola di Chiloè, luogo dove numerosi villaggi dall’aspetto lindo e pittoresco creano il suo fascino romantico. Dove si assapora il lento vivere avvolti in un quadro multicolore. Dove i brusii degli abitanti e le cantilene ricordano quelle sentite lungo le piste della Patagonia argentina dove emigranti dell’isola di Chiloè cercavano lavoro nelle fazende.
Osservo l’orizzonte, quasi intimorito, pensando ad altre leggende raccontate come quella del El Trauco, il vecchio deforme dotato di una virilità invidiabile che, nei giorni di pesca, quando gli uomini sono lontani, provoca sogni erotici seducendo le giovani mogli.
Perché andare a Chiloè? Perché è un piccolo lembo di Cile unico e differente dal resto del paese. Per il suo “nonsochè” che attira, affascina e poi non molla. Per la sua pioggerellina presente sempre, in tutte le ore del giorno, che si alterna ad arcobaleni che si accendono e spengono. Per le sue 150 chiesette di legno con i campanili decorati, le case rivestite di lamelle, le numerose palafitte conficcate nelle tranquille acque della Baia
L’isola di Chiloè dove il Cile non è Cile, dove la Patagonia non è Patagonia, dove è solo l’Isola di Chiloè.
Riporto dal mio Moleskine: ”Oggi torno in Argentina percorrendo, con mezzi pubblici, un vecchio tracciato che attraversa il Parco Nazionale cileno-argentino dei Laghi. Il bus (come si dice dalle nostre parti “vecchio come un bacucco”) scivola con ripetuti scossoni lungo la costa del Lago Llanquihue con l’immagine rispecchiata della mole del Vulcano Osorno”.
Finalmente termina l’avventura sul bus cileno e inizia una tranquilla traversata del Lago Todos los Santos. Un trionfo di colori. Ancora dai miei appunti:”Le acque color smeraldo riflettono i lineamenti verde cupo delle vette andine che lasciano lo spazio alla gigantesca figura del Cerro Puntiagudo con la sua bianca cima innevata”.
Attracco a Peulla. Di lì a poco sarò nuovamente in terra argentina. Timbri, controtimbri e un sorridente adios. Lascio a piedi quel posto di frontiera senza voltarmi per non cadere nella banalità dei rimpianti.
Dopo duecento metri salgo su di un bus Mercedes anni ’60, vintage, molto vintage. Ha avuto inizio un breve viaggio tra le due frontiere che, come si suol dire, ricorderò fin che campo.
Il Mercedes arranca con il suo rumore ferroso al limite dei giri su di un sentiero largo quanto lui. Il tracciato si snoda sul fianco della montagna senza alcuna protezione. Non so se temere per il pericolo incombente o gioire per il superbo spettacolo della natura. Il motore sembra cedere ad ogni sussulto. Si spenge solo quando raggiunge il posto di frontiera argentino”. Targa cilena o argentina? Nessuna targa. Bus senza frontiere, per i cittadini del mondo, destinato a rimanere prigioniero in quel tratto di strada senza nazionalità.
L’ultimo lago è quello argentino Nahuel Huapi. L’attraverso con un modernissimo catamarano, dal nome scontato: Patagonia Express. A bordo veri turisti, reduci da escursioni all inclusive, sfoggianti magliette colorate con sopra riportate scritte accattivanti (I love Patagonia, Beautiful Patagonia, Bariloche capital de Patagonia).
Mi rendo conto che il mio viaggio in Patagonia è veramente terminato. Arrivo a San Carlos de Bariloche e non vedo l’ora che il tempo che mi separa dal decollo per Buenos Aires passi velocemente.
Uno scenario urbanistico “catastrofico” dove accanto a palazzoni dormitorio trovi case dal tipico stile sud-tirolese. La Las Vegas delle Ande, con i fast food, le cervezerie, le cioccolaterie e i negozietti succhia-denaro. Con turbe di americanos con le loro camice colorate e i cappellini bianchi tutti uguali.
Finalmente il decollo. Che viaggio a bordo di quel 737. Un continuo agitare di shoppers gialli e rossi con dentro i trofei acquistati a San Carlos. Infine Buenois Aires. Avevo bisogno di prendere aria per togliermi di dosso l’odore stagnante di cioccolata. Ho odiato per molti giorni la cioccolata.
Scrivo a getto sul mio Moleskine gli ultimi pensieri mentre l’aereo sorvola l’Oceano. Rivivo tutto il viaggio. Lo spettacolo dei colori, i pinguini, gli elefanti marini, la solitudine patagonica, l’urlo del vento. Ecco il perché della mia presenza in Patagonia: la risposta.