Soundtrack: “Picnic at Hanging Rock” (Georghe Zamfir, 1975, Ost).

Scoperte (strabilianti) d’agosto: vai all’anagrafe e ti dicono che, senza saperlo, per anni hai coabitato con un rumeno. Non uno qualsiasi, bensì Gheorghe Zamfir, l’autore della colonna sonora dell’indimenticabile film di Peter Weir. Uno scherzo? No, anzi. Solo che…

Estate 1976, non avevo ancora 16 anni. Ero in pieno trip discografico, ma forse i miei non lo avevano ancora capito del tutto e pensavano ad una effimera fissazione adolescenziale. Mal gliene sarebbe incolto.
Comunque era luglio e io ero al mare.
Per il weekend arriva mio padre, accanito cinefilo, e mi spiazza con una richiesta assolutamente inusuale: “Devi trovarmi un disco”. La cosa mi lusingò infinitamente, assai di più di quanto egli, forse, comprese. Mi stupiva parecchio, però, che il genitore si interessasse al rock and roll. “Che disco?”, gli chiesi attonito, quasi incredulo. “Non conosco il musicista, nè il titolo della musica. E’ la colonna sonora di un film che si chiama Picnic at Hanging Rock ed è suonata con il flauto di Pan“, disse lui.
Agli antipodi delle mie frequentazioni, pensai. Ma la sfida non poteva essere fatta cadere ed io tornai in città apposta per dare avvio alla caccia.
Precisiamo: ai tempi non c’erano internet, fax, cellulari. Le ricerche si facevano sul campo, cioè a voce, muovendosi fisicamente, andando per tentativi, raccogliendo informazioni a pezzi e bocconi.
Ciononostante la cosa fu meno difficile del previsto e in capo a un paio di giorni, visitati una decina di negozi, ebbi in mano il 45 giri. In copertina c’era scritto: Gheorghe Zamfir, colonna sonora del film “Picnic at Hanging Rock”.
Breve indagine mentre, in attesa della consegna, il vinile girava a ripetizione sul mio giradischi: questo Zamfir era un compositore rumeno, pare abbastanza famoso, che suonava appunto il flauto di pan, uno strumento tradizionale costituito da una serie di flauti dolci di diversa lunghezza, allineati insieme come le canne di un organo. La musica era dolcissima, sincopata, ipnotica, vagamente inquietante. Come inquietante si rivelò la visione del film, capolavoro di Peter Weir e inno al potere estatico, a volte diabolico della bellezza, alla sua metafora, al suo potere misterico, al confine sottilissimo tra amore e passione, virtù e peccato, corpo e mente, fisica e metafisica.
Il disco finì nelle mani del babbo, che se ne compiacque assai. E io anche.
Ovviamente però ne tornai presto in possesso e lo ascoltai altre centinaia di volte, così come tante volte ho rivisto, sezionandola fotogramma per fotogramma, la pellicola.
Un episodio antico che pareva, tuttavia, da tempo archiviato tra i ricordi.
Poi, qualche giorno fa, per banali ragioni burocratiche vado all’anagrafe del comune dove vivo.
Per la precisione, abito da vent’anni in un complesso sperduto nella campagna, isolato. E, è ovvio, ci sto da solo con mia moglie.
Chiedo un certificato anagrafico e l’impiegata, col tono distratto e un po’ annoiato di chi non si stupisce mai di nulla, mi fa: “Ma ci vive anche qualcun altro lì da lei”. Lì per lì trasecolo e mi affretto a rassicurarla che non possono esserci dubbi: le garantisco che siamo proprio soli. “Eppure – insiste lei – a me risulta un altro residente in casa sua. E’ sicuro di non conoscerlo? E’ uno straniero, dev’essere un rumeno”.
“E si chiamerebbe?”, faccio io con tono esplicitamente ironico.
Gheorghe Zamfir“, mi gela lei.
Dalla mia espressione credo si sia accorta che ero strabiliato.
“Zamfir? Gheorghe Zamfir?”, balbetto mentre mi accorgo che all’improvviso la mia mente annaspa cercando di individuare un podere vicino, un casolare, un qualcosa dove, a mia insaputa, per anni avesse potuto abitare qualcun altro. E che qualcuno… Ma nulla, non mi sovviene nulla. E’ impossibile, impossibile, ripeto tra me e me.
Ma lei, inesorabile, prosegue a snocciolare informazioni. Indirizzo identico, civico compreso. I documenti parlano chiaro: formalmente il tizio ha abitato “con me” o addirittura “in casa mia” dal 2004 al 2009, anno dal quale risulta irreperibile. Il mistero diventa vagamente eccitante.
Come trentasei anni prima, scatta l’indagine. Non sulla musica stavolta, ma sull’autore. O sull’incredibile coincidenza che il famoso musicista (o più probabilmente un suo omonimo) abbia potuto risiedere, in virtù del caso, o di un errore, o di un’astuzia da immigrati, nella frazione più sperduta del mondo della campagna più marginale e improbabile del mondo.
Eppure, alla fine, è risultato proprio così: per anni, senza sospettarlo, ho convissuto con un inquilino inafferrabile, invisibile e misterioso, che aveva popolato la mia adolescenza e si chiamava Gheorghe Zamfir. O lui, il famosissimo compositore della musica di “Picnic at Hanging Rock” che infinite volte mi ha risuonato nella testa, o uno che si chiama come lui. Il tutto in un luogo che, a suo modo, per atmosfera, contesto, luce e inquietudine è una sorta di Hanging Rock rurale.
Incredibile, no? Ma può capitare anche questo.
Ed è tutto anche singolarmene strano, sconcertante e pure un po’ ironico.