Come quando si guarda il dito al posto della luna, così la giornata mondiale dedicata a quei luoghi inconfondibili – bar col giradischi al posto del flipper o cenacoli per appassionati che fossero – sta diventando il teatrino del consumismo nostalgico.
Oggi è il Record Store Day, la giornata in cui si dovrebbero celebrare i negozi di dischi e i loro valori: luoghi di ritrovo e di “aggregazione“, come si sarebbe detto una volta, ritrovi o circoli in cui crescere musicalmente comprando quello che si poteva, desiderando quello che non si poteva e abbeverandosi alla fonte di chi ne sapeva, e aveva ascoltato, più di noi.
Una realtà erosa prima dalla nascita dei megastore, affossata poi dalla musica liquida e dalla crisi dell’industria discografica, rimasta infine aggrappata, boccheggiante, al mercato dell’usato e del collezionismo.
Tutti abbiamo nostalgia dei negozi di dischi tradizionali, quelli in cui il proprietario, esattamente come certi librai, aveva una faccia, uno stile e una clientela ben definita, al pari di tanti altri negozi di quartiere ormai scomparsi.
Tutti (eccetto chi non li ha conosciuti) abbiamo anche nostalgia del disco-oggetto, in vinile innanzitutto ma alla fine pure del cd, cioè di qualcosa di unico, coeso, con un titolo e una sua unità, non spacchettabile, non virtuale, non replicabile, riconoscibile a vista per via della costola, della copertina, delle note interne. E per questo in qualche modo anche fragile, deperibile. Che si poteva prestare e poi reclamare.
Ma attenzione: oggi è il Record Store Day, non il Record Day.
Si celebra, anzi si dovrebbe celebrare, il contenitore e non il contenuto.
E invece quasi ovunque è un’alluvione di ristampe costosissime, di pezzi rarissimi, di repliche perfettissime che non alimentano affatto la fame di musica di cui il vecchio negozio era spacciatore, ma nutrono il mercato, un po’ patetico, della nostalgia e del collezionismo fine a se stesso.
Non c’è niente di male, per carità, se un sessantenne ormai sistemato si ricompra a prezzo quadruplo gli lp dimenticati vent’anni prima in qualche cantina, o regalati con troppa fretta, o venduti per finanziare altri progetti.
Ma in tutto questo, o nei collectors’ item – cofanetti pieni di alternate takes, vinili pesanti come vocabolari e copertine apribili o cartonate, sempre cari però come accessori griffati – mi pare non ci sia nulla della poesia del vecchio negozio che si vorrebbe salvaguardare.
E’ come andare a comprare i giocattoli della nostra infanzia dall’antiquario anzichè al vecchio negozio di balocchi cittadino, dall’odore inconfondibile.
E questo non mi piace per niente.
Se poi serve a far sopravvivere i negozi di dischi, non mi piace lo stesso.