La norma per la quale (chissà) ingabbieranno Sallusti non è ingiusta: è male applicata. Ed è il frutto di strabismi e di disuguaglianze. Se invece ci fossero norme certe e chiare, ma soprattutto valide per tutti e insegnate a tutti, contro chi scambia il giornalismo per militanza o palestra pubblica delle proprie idee, avremmo un’informazione migliore.

Ho seguito con infinita noia il caso Sallusti e tutta la scia di indignazioni più o meno telecomandate che ne stanno seguendo, frutto dei riflessi ideologici pavloviani, dell’opportunismo, del politicamente corretto e della propaganda permanente effettiva che avvolge fino a strangolarla l’intera categoria giornalistica.
Sullo specifico, dico subito come la penso (e come credo, senza dirlo, la pensino in tanti). Cioè così: da un lato non c’è dubbio che il collega abbia violato norme penali vigenti, giuste o sbagliate che fossero, e che pertanto la sentenza sia tecnicamente ineccepibile; dall’altro non c’è dubbio che, se tra le parti offese non ci fossero stati dei giudici, col fischio che con Sallusti si sarebbe usato un tanto rapido e inflessibile rigore. Per non dire se al posto di Sallusti si fosse trovato un giornalista di nome o di “parte” diversa.
Il che è grottesco.
Ma non è di questo che voglio parlare.
O forse sì: cioè dei giornalisti-militanti e del grande equivoco in corso su questa insopportabile figura, attorno alla quale si è sviluppato un altrettanto equivoco dibattito.
In sintesi: dovendo per definizione il giornalista essere terzo e imparziale (il che non vuol dire non avere opinioni, ma vuol dire non farsi accecare da esse al punto da travisare i fatti, piegando la cronaca alle idee personali), è ammissibile l’esistenza di giornalisti-militanti? Cioè di giornalisti che sono dichiaratamente di parte, tifano, fanno politica, leggono a un libro solo, indagano da una parte sola, si schierano non solo in termini generici, bensì proprio nella lettura dei fatti di cui si occupano?
Secondo me, no.
Se però mi guardo intorno – e in tal senso il girovagare e dibattere in rete con moltissimi giovani colleghi ha contribuito in modo decisivo ad aprirmi gli occhi – mi accorgo che la realtà è diversa.
E che moltissimi giornalisti impegnati ogni giorno nella cronaca si sentono anche, se non principalmente, dei militanti. Se non di un partito, di un’idea. Hanno cioè una nozione preconcetta di chi sta dalla parte del torto e di chi da quella della ragione, vivono di apriorismi, di appartenenze ideologiche, di “aree” di riferimento anzichè di principi professionali da porre al centro del proprio lavoro e a cui far capo per l’esecuzione dello stesso. E in base a ciò scrivono, titolano, fanno inchieste, montano processi mediatici e vergano le relative sentenze.
Ce ne sono poi alcuni (parecchi) che si dichiarano esplicitamente tanto di parte (e ciò gli pare normale!) da considerare appunto la propria attività di reporter non come una prestazione giornalistica, cioè un’attività professionale resa a un editore in cambio di un compenso, ma un atto (dovuto) di militanza prestato a una fazione di commilitoni, correligionari, compagni.
Un atto per il quale il corrispettivo, cioè il pagamento, che è la ragione unica o almeno principale per la quale chiunque lavora per qualcun altro, diventa spesso un elemento secondario. Quando non addirittura eventuale. Punto sul quale furbescamentissimamente giocano gli editori-ideologi. Argomentando più o meno così: ciò che ti chiedo è un lavoro, quindi devi svolgerlo con diligenza e metodi professionali, ma siccome esso consiste in un atto di militanza e di fede, non te lo pago perchè l’essenza della militanza è il volontariato.
Morale: il giornalista-militante accetta di lavorare quasi gratis in quanto prima militante che giornalista.
Ovvio che quindi finisca per fare, a volte involontariamente, propaganda invece che informazione.
Ecco, in un quadro e da un quadro come questo è poi così strano che la società voglia difendersi?
Per capirci: è così anomalo – in un mondo in cui i giornali si usano come armi – se più o meno tutte le categorie che la compongono (dai politici agli imprenditori, dagli statali agli studenti, dai pensionati ai professionisti) considerano i rappresentanti della stampa non interlocutori nel nome dell’informazione ma, ovviamente in base ai diversi schieramenti di appartenenza, avversari o nemici? E si sentano, come spesso in effetti sono, attaccati da un certo giornale o giornalista non perchè ci siano questioni da chiarire, ma solo perchè quel giornale o quel giornalista fa riferimento a interessi, parrocchie, aree diversi dai loro?
Giù la maschera: è quello che succede quotidianamente, lo sappiamo tutti.
Ecco, allora dico sì che sancire norme penali intimidatorie (siano esse detentive o pecuniarie) per obbligare i giornalisti a tacere è intollerabile. Ma che è altrettanto intollerabile dare a chiunque, in virtù dell’appartenenza a una categoria sulle cui funzioni fondamentali nessuno indaga nè provvede (professionalità, terzietà, responsabilità, consapevolezza di sè), la liceità ad agire con mezzi e scopi di killeraggio mediatico, trincerandosi dietro il pur ben argomentato equivoco di un’informazione scambiata per propaganda e di una militanza camuffata da giornalismo.
In questa chiave, allora, ben vengano norme sanzionatorie (penali ed ordinistiche) tanto severe quanto inderogabili a carico di giornalisti che abusino del proprio ruolo e del proprio potere. Purchè siano uguali per tutti, applicate puntualmente e velocemente a tutti, a prescindere da chi sia il reo e da chi sia la parte offesa. E purchè tali norme, nonchè la ratio che ne è alla base, diventino parte obbligatoria e fondamentale di insegnamento e di esame in tutti i test di ammissione all’Ordine, agli elenchi e alle caste del regno.
Se invece come adesso, giornalistificio imperante, prima si dà a tutti la patacca di giornalista e poi nemmeno si controlla che chi la porta ne conosca il significato o applichi le regole-base che il possesso del tesserino implica, buonanotte: si manda in galera Sallusti, si dicono due o tre sciocchezze retoriche sulla libertà di stampa, si offre al sindacato l’opportunità dell’ennesimo vaniloquio e dell’ennesima fiaccolata e tutto resta come prima.