Non è stato il gastrowrestling buonista che si temeva, ma nemmeno uno scontro all’ultimo sangue. Tra molti solidi argomenti e parecchie divagazioni, il problema del rapporto tra “origine” e “imprinting” dei prodotti agroalimentari è sfumato così, come forse era inevitabile, in un ragionevole dialogo sui massimi sistemi, i problemi del settore e la globalizzazione che tutto abbraccia. I punti “caldi” e specifici, come ad esempio la possibilità di accertare scientificamente l’origine e, perchè no, anche l’effettiva incidenza della stessa sulle qualità organolettiche? Abilmente dribblati. Ma poteva andare peggio. Anche perchè il dibattito ha avuto un’encomiabile agilità e si è concluso, sotto la regia del collega Davide Paolini, in un’oretta di chiacchiere.
Nessun mattone, insomma, ma anche poco pepe.
Il presupposto sostenuto dal presidente di Coldiretti Sergio Marini era semplice: l’origine di un prodotto – ha detto in sintesi – è il primo pilastro per la tutela non solo del consumatore, che ha diritto di sapere da dove viene ciò che mangia, ma anche dell’agricoltore, che solo vedendo sostenuto il prezzo del prodotto dal valore aggiunto ad essi conferito da un’origine garantita ha la possibilità di sopravvivere in un mercato globalizzato, dove “non si può produrre a costi italiani e vendere a prezzi cinesi”. In sostanza, ha concluso, l’origine è una componente della competitività.
Gli ha fatto eco, anch’egli con buone argomentazioni, il direttore generale di Federalimentare, secondo il quale (e sempre in sintesi) già oggi l’origine può essere valorizzata volontariamente e non si vede perchè la sua dichiarazione debba essere imposta a tutti per legge, quando ci sono settori del made in Italy la cui eccellenza non dipende dall’origine geografica dei prodotti, ma dal valore aggiunto conferito dal know how e dalla tradizione italiana nel manipolare derrate esplicitamente provenienti dall’estero. “Come ad esempio il caffè”, ha esemplificato, inserendosi nella discussione, Marco Paladini della Mokarico.
Sul concetto si è inserito Paolini chiedendosi allora, il questa falsariga, come sia accettabile che certi prodotti italiani a Igp possano essere fabbricati con materie prime straniere: ad esempio la bresaola della Valtellina, fatta notoriamente (prima) con carni brasiliane e (oggi) di bovini scozzesi. La risposta alla domanda, notiamo noi, è implicita: è il disciplinare di produzione stesso che in questi casi ne ammette l’uso. Nessun inganno formale, dunque. Cosa ben diversa, sempre ad esempio, di quanto accade quando si spaccia per olio ottenuto da olive italiane l’extravergine spremuto in Tunisia.
Diplomatica la posizione di Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, il quale ha giustamente richiamato a non fare dell’idea di origine nè un idolo, nè un rottame, ma solo uno dei tanti strumenti che contribuiscono alla qualità complessiva di un prodotto: “Non tutto è valorizzabile attraverso l’origine – ha detto – ci vogliono anche altri meccanismi di tutela. Anche perchè origine è cosa diversa da denominazione di origine: la seconda è certificabile, la prima, ad oggi, no”. Anche perchè, ha aggiunto Rossi, i prodotti a d.o.c. rappresentano solo il 10% del fatturato dell’industria agroalimentare italiana ed è dimostrato che non sempre il consumatore è disposto a spendere di più per acquistarli. “Sì – ha ribattuto il presidente di Coldiretti – ma l’origine è parte integrante della qualità di un prodotto e quindi anche del suo prezzo: “Noi non siano contro ciò che non è doc, ma sosteniamo che bisogna ben distinguere le due categorie”. Disincantata la replica di Ricci Curbastro: attenzione, ha ammonito, che mentre ci accapigliamo tra noi il resto del mondo va avanti e a Bruxelles già risultano registrati una dop “Napa Valley” e due dop “Marlboro Country” australiane. “Il paradosso – ha concluso – è che all’estero ci stanno facendo le scarpe con gli strumenti a cui li abbiamo aiutati ad accedere, mentre noi restiamo scoperti”.
E da qui il discorso ha divagato sui pur interessanti temi della contraffazione dei prodotti Made in Italy (vero: 4 su 5 nel mondo sono venduti come italiani senza esserlo), della politica italiana che si è “impossessata” della gestione di denominazioni e consorzi (altrettanto vero), nonchè sullo scarso peso dell’Ue all’interno del Wto e conseguentemente della modesta protezione che Bruxelles offre in generale alle produzioni europee.
Peccato – sia detto a margine – che a nessuno, nemmeno al presidente di Coldiretti, sia però venuto in mente di sottolineare il risibile potere contrattuale che il comparto agricolo ha all’interno delle politiche comunitare e perchè, in conseguenza di ciò, esso sia destinato a fungere da “merce di scambio”, per non dire da agnello sacrificale, all’interno di più ampie trattative concernenti la regolamentazione mondiale dei mercati.
A questo punto, tuttavia, il lettore si chiederà: interessante, ma non si doveva parlare dell’imprinting dell’origine sui prodotti agroalimentari, del terroir e via cantando?
Appunto. Anche noi, alla fine, ci siamo fatti la stessa domanda. Ma ormail il “ring” era finito, il pubblico sciamava e i contendenti si scambiavano i convenevoli di rito. E nessuno aveva voglia di risuonare il gong per un secondo round.