di URANO CUPISTI
A fine estate del 1961 mio padre mi portò con sè su una motonave diretta in Siria per scaricare legname e caricare tabacco. Il paese era già in bilico, la RAU agli sgoccioli, vigeva il coprifuoco. Ma feci in tempo a visitare Lakatia, Damasco e Palmira.

 

Quando mio padre mi annunciò, nel marzo del ’61, che il nostro viaggio di fine estate avrebbe avuto come meta principale la Siria, ebbi quel fremito particolare che solo il viaggiatore-viaggiatore sa provare.

Subito mi tornò alla mente la lezione di storia del maestro Pierotti, in quarta elementare: la conquista romana del Medio Oriente, con lo sbarco a Laodicea e la costruzione dell’arco di trionfo in onore dell’imperatore Settimio Severo, a perenne memoria della potenza ed egemonia dell’Impero (183 d.c.).  I desiderio di passarci sotto raddoppiò il mio fremito. E dal ricordo di quella lezione emersero, a ruota, anche le nozioni sull’insediamento dei Fenici a Ugarit, considerata una delle città più antiche di sempre, e le remote iscrizioni in alfabeto locale che gli archeologi avevano trovato.

All’epoca, nel 1961 intendo, gran parte parte della storia recente di questo paese tormentato non era stata scritta. Si pensava, allora, che la Siria avesse raggiunto finalmente la pace e l’armonia delle sue genti divise in miriadi di tribù. Nel 1958, infatti, su iniziativa dall’allora presidente egiziano Nasser, si era costituita la RAU, la Republica Araba Unita: Egitto e Siria insieme.

Ma non fu così, anzi.

E io ebbi appena il tempo di rientrare in Italia da quel magnifico luogo fatto di colline verdeggianti, deserti che si perdono all’orizzonte, vestigia storiche millenarie e una ridente costa mediterranea: poi tutto ripiombò nelle lotte fratricide che ancora oggi segnano la sua quotidianità.

La motonave Nicoletta delle Linee Messina, carica di legname e proveniente da Cipro, approdò al molo assegnato. Mi ci trovavo sopra, sebbene adolescente, perchè mio padre lavorava sui grandi cargo e ogni tanto aveva il permesso di portarmi con sè.

Iniziò così la mia conoscenza di Levante (questo è il significato di Siria): con la visione dal mare di Latakia, cioè l’antica Laodicea, in un caldissimo e luminoso giorno di fine agosto.

Ci dissero che, di giorno, spostamenti e visite sarebbero state possibili. Di notte invece vigeva il coprifuoco, quindi dal tramonto all’alba saremmo divuti restare a bordo o in albergo a sorseggiare أنت, cioè thè aromatizzato, e a fumare il dolce tabacco locale, chiamato appunto “laodicea”, come la città.

Allora, del resto, la Siria era una dei paesi maggiori produttori di tabacco al mondo e fu proprio quello il prodotto, confezionato in balle, caricato nelle stive del Nicoletta per il rientro a Genova.

Latakia era la porta d’ingresso dei traffici commerciali e la più importante città portuale della Siria.

Lo era già all’epoca dei Fenici prima e dei Greci poi. Da qui pare che partirono le prime navi cariche di vino Syrah alla volta del delta del Rodano. Dopo i Romani vennero gli arabi e dopo di loro i turchi, che assorbitono la città e l’intera Siria nel loro grande impero.

Nel visitare la città e la sua costa, con spiagge bellissime, fino a Ugarit, respirai quell’aria di libertà provata a già Beirut due anni prima. Quell’aria un po’ mondana, vagamente modaiola, un po’ inebriante e lontana dai rigidi parametri di vita quotidiana imposta da certe interpretazioni particolare del Corano. C’era un’atmosfera europea, molto francese soprattutto visto che, fino al 1946, il paese era stato un protettorato di Parigi. La si respirava nell’architettura, nella quotidianità, nei caffè e perfino nei piccoli villaggi fino alla frontiera con la Turchia.

A Damasco incontrai più tensione. C’era il classico caos arabo, coi suk pericolosi, gli sguardi diffidenti, le donne velate e sfuggenti, l’eco di continui spari anche di giorno. La gente era assuefatta a tutto ciò e perfino allo scoppio quotidiano di qualche bomba, all’arresto degli oppositori del regime, alle manifestazioni del partito Ba’th ancora non al potere ma già forte ben radicato.

Nonostante questo clima un po’ surreale riuscìi a visitare Il palazzo Azm, usato dalla famiglia dei governatori ottomani, con tanto di harem. Rimasi colpito dallo sfarzo delle decorazioni e dagli ampi cortili con le tradizionali fontane a cascatella. Al momento della mia visita era già sede del Museo di Arti e tradizioni popolari.

Da lì passai alla Grande Moschea degli Omayyadi, il principale edificio di culto della città, classico esempio di architettura islamica. Già Tempio di Giove al tempo dei Romani, poi Chiesa dedicata a San Giovanni Battista durante l’Impero Romano d’Oriente, aveva resistito ai saccheggi, alle distruzione, agli incendi, ai terremoti e ai “restyling” voluti via via dalle varie fazioni religiose che prevalevano al potere.  Mi si presentò nella sua imponenza coi minareti e la cupola mastodontica. Al suo esterno, il Mausoleo del Feroce Saladino di antica memoria. Toccò quindi al caravanserraglio più grande di Damasco, il Khan di Azim Pascià: 2.500 mq di superficie coperta e un fascino inesprimibile.

Infine, Palmira. Arrivai appena in tempo per vederla in tutto il suo splendore: il tempio di Bel, il celebre colonnato, il campo militare di Diocleziano.

Ma l’aria era diventata brutta e il rientro a Latakia non fu semplice. Mi parve di essere un inviato di guerra, tra deviazioni per evitare i posti di blocco tra le opposte fazioni, impegnate in un’escalation che da lì a pochi giorni avrebbe dato inizio a una nuova stagione di instabilità, proprio mentre la motonave Nicoletta era pronta a salpare. Il tempo correva e il fatti più di lui.

A fine settembre il partito Ba’th prese il potere. Poi venne il regime di Assad. Nel 2015 l’Isis fece saltare il tempio di Bel e parte del porticato di Palmira per liberare la Siria dai monumenti inneggianti al politeismo. La triste storia della Siria è nella realtà dei nostri giorni.

Se riuscii a visitarla allora e in quel modo, lo devo a mio padre.