di LUCIANO PIGNATARO
Un laconico “manifesto programmatico” per il ritorno alle origini (e al successo) del Cirò, con la complicità di chi meglio di tutti lo conosce: i produttori di Calabria.

La verifica più sicura per capire se ci troviamo in un territorio vitivinicolo recente o di tradizione è inseguire il profilo aromatico e gustativo delle bottiglie.
Nel Cirò, quando è fatto solo con Gaglioppo, c’è sempre. Direi a cominciare dal profilo visivo, con il colore rubino scarico, quasi stanco, temutissimo dai produttori negli anni ’90 e, ora, da quelli che ancora non hanno capito che l’era del bicchiere scuro e impentrabile come la cioccolata è finita per sempre. E per fortuna.
Il Cirò ha subìto una modifica nel disciplinare: sono state autorizzate anche le uve internazionali perché così, pensa la maggioranza, sia più facile conquistare nuovi mercati. Sarebbe molto bello iniziare in primo luogo a conquistare il mercato italiano, disorientato per molto tempo.
Io sono invece convinto che si fanno vini uguali agli altri per i nostri ci saranno sempre meno possibilità.
La foto che vedete è la speranza, concreta, che le cose stiano cambiando. Con Giovanni Gagliardi di Vinoccalabrese.it che troneggia seduto, ci sono alcuni dei migliori porduttori di Gaglioppo in purezza: Ippolito, ‘A Vita, Cote De Franze e Sergio Arcuri. Non sono i soli: voglio ricordare Librandi e Calabretta, alla sua prima vendemmia.
Si tratta di vini austeri, precisi, da inseguire con il naso e da aspettare con pazienza. Salati, secchi, lunghi e soprattutto dalla capacità infinita di invecchiare.
Questò è il Cirò che ci piace della Calabria che ci piace: quello che non insegue modo ma che resta fedele a se stesso come unica possibilità per mantenere il proprio profilo identitario nel mondo in cui tutti vogliono essere qualcos’altro.

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