Non amo la cucina etnica, non sono un esperto nè un critico. La mia stavolta è una banale opinione da cliente comune. Ma a Firenze mi sono finalmente imbattuto in un ristorante cinese frequentabile. E siccome il capodanno cinese cade il 5 febbraio…

 

E’ arcinoto che non sono un cultore della cucina etnica e che, pertanto, sono anche ben lungi dal dichiararmi esperto o, tantomeno, critico della medesima.
Forse perchè essendo, a causa del mio lavoro, spesso multas per gentes et multa per convivia vectus, col tempo ho assunto l’abitudine – giornalisticamente ineccepibile, gastronomicamente a volte meno – di assaggiare le specialità esotiche nei luoghi di origine, con indubbio sviluppo di copiosi anticorpi contro il mal di pancia ma, appunto, non sempre con benefici organolettici rimarchevoli.
E anche perchè, in virtù dei motivi appena detti, so bene che, senza dubbio comprensibilmente, per rendere gradevole il gusto delle aliene portate all’italico palato, queste vengono quasi sempre, altrettanto comprensibilmente, adattate, addolcite, contaminate, smussate. Con il risultato di renderle sovente anche un po’ insipide e drammaticamente simili l’una all’altra.
Per farla breve, in Italia frequento poco o nulla, se non per dovere professionale, i ristoranti cosiddetti etnici. In particolare quelli cinesi, stufo della generalizzata graveolenza delle pietanze e dei locali.
Sia chiaro che le esperienze positive non mi mancano: Hangzhou, Haining, Pechino, Taipei, perfino San Francisco in tempi remotissimi. Ma erano tutti locali di alto rango ed ero quasi sempre in compagnia di commensali cinesi tanto affidabili quanto cittadini del mondo.
Dalle noste parti, la mia esperienza personale cambia: tante serate divertenti e assai odorose, involtini plimavela, liso flitto, glappa cinese, conto salato della lavanderia e stop.
Tutto questo per dire che, dopo numerosi inviti e qualche mia resistenza, finalmente ho avuto l’opportunità di pranzare in un ristorante di cucina cantonese (lo specificano) come si deve. Come si deve nel senso che il luogo è di buon gusto – niente dragoni ed equivoche lanterne rosse, per capirsi – e che i piatti sono saporiti, piacevoli, per niente appiccicosi, niente affatto olezzanti, tutti espressi e preparati giornalmente. Di ognuno si distinguono ingredienti, consistenze e variabili. Ci sono particolarmente piaciuti il raviolone al tartufo (ripieno di manzo Fassona e tofu marinato con crema di zucca), le croccanti palline ai gamberi fritti (con spaghetti cinesi, salsa agrodolce e base di patate in crosta di mandorle), la zuppa con gamberi.
Il servizio è sobrio, la cantina adeguata ad una clientela italiana più che ragionevolmente esigente, i tavoli apparecchiati con ordine e attenzione. In più, dettagli poco etnici ma fondamentali per il comfort, ci sono un parcheggio privato, qualche sala riservata e un affaccio a sorpresa dal terrazzo su scorci inediti anche per un vedutista incallito.
Ora che, contro ogni regola del mestiere, ho scritto tutto senza prima dire specificamente di cosa parlo, posso finalmente svelare che mi riferisco al Fulin, il ristorante cinese di via Giampaolo Orsini 113 rosso a Firenze.
Come avete letto, niente superlativi ad effetto ma la sensazione di essere stato in un locale godibile e professionale. Qualità sempre più rare, al giorno d’oggi! (cit.).

Visto poi che il capodanno cinese cade il prossimo 5 febbraio e che quel giorno si entra nell’anno del Maiale (niente pruderie, è solo uno dei dodici segni dell’oroscopo cinese), per l’occasione annunciano pure la creazione di un piatto ad hoc, ovviamente a base di porco: la “Fantasia di Maiale” con un gusto, spiegano, “leggermente piccante alleggerito dal fresco sapore del prezzemolo cinese e impreziosito dal dolce sapore del peperone e dal bambù“.