Qualche collega ha interpretato il mio ironico appello alla “decrescita” anche in campo professionale (vedi qui) come l’adesione a bislacche teorie new age o una boutade tra l’ingenuo e lo scherzoso. Niente affatto: è una convinzione supportata invece da attenti calcoli matematici e da ponderate valutazioni economiche. Non solo, ma non è nemmeno una “ritirata” dall’agone della professione. Al contrario: è la dimostrazione che per sopravvivere bisogna riconvertirsi, senza paura di cambiare.
Tranquilli, amici e colleghi. Non mi ha dato di balta il cervello, non mi sono affidato a guru o santoni, non ho avuto una crisi depressiva da mancanza di lavoro, non ho abbracciato nuove filosofie. Ho solo cominciato a farmi in modo impietoso i conti addosso. Ad individuare i rami secchi. A disfarmi di tanti panni a cui ero affezionato, ma che ormai mi andavano stretti. E a gettare le basi per il mio rilancio professionale, una strada un po’ dolorosa ma indispensabile per sopravvivere nel mondo di una libera professione in caduta libera, se esercitata nei modi a cui eravamo abituati.
Non dev’essere stato un caso, del resto, se il post in parola è uno di quelli che ha avuto il massimo numero di lettori e di visite, segno che il tema era ben centrato.
Per capirne il senso, bisogna calarsi però al mio posto, cioè in quello di un giornalista che da oltre 20 anni fa, con discreti risultati, il freelance per scelta e che di questo lavoro vive, avendo potuto e dovuto, nel tempo, radicarsi, avviarsi, strutturarsi nel sistema e quindi anche ritagliarsi un posticino e una certa continuità. Con tutto ciò che questa comporta in termini di posizione assicurativa, previdenziale, professionale, familiare.
Avere uno studio e una struttura di lavoro avviati, con famiglia annessa, è ben diverso che lavorare da casa, in perfetta solitudine, dovendo rispondere solo di sè e a sè, magari potendo contare sulla disponibilità o l’aiuto diretto di altri (genitori, consorti, etc.). E’ una situazione molto più viscosa, molto più macchinosa, molto più statica. Una situazione in cui i cambiamenti sono difficili da fare e difficilmente, una volta fatti, sono reversibili. Ragion per cui vanno ben ponderati.
Il principio di fondo da cui è scaturito il mio ragionamento è questo: la redditualità, cioè la capacità di produrre un reddito (ovvero una fonte di sostentamento) è uno degli elementi costitutivi (forse il principale) di qualsiasi attività che voglia definirsi “professione”. Un secondo fondamentale principio, conseguenza del primo, è che per essere redditizia l’attività va condotta secondo criteri economici, cioè non in perdita e anzi massimizzando (ragionevolmente) gli utili.
Terzo principio: per le ragioni dette sopra, esiste tutta una serie di spese fisse che sono strutturalmente rigide e quindi non possono essere compresse oltre un certo limite: appunto assicurazioni, previdenza, assistenza sanitaria, etc.
Occorre quindi concentrarsi sulle altre voci di uscita, le cosiddette “spese di produzione del reddito”, ovverosia quelle poste a cavallo tra il consumo e l’investimento che qualunque professionista sostiene per “nutrire” il proprio giro di lavoro e di clientela.
Di norma, alla riduzione di queste sussegue un calo del giro di affari e quindi di reddito.
Ma ne siamo sicuri? E, ammesso che ciò sia teoricamente certo, come facciamo a garantire che quanto attuiamo in pratica non sia in tutto o in parte il frutto di un’illusione ottica, di un riflesso condizionato, dell’incapacità di distaccarsi da parametri di giudizio tanto rassicuranti, perchè avvertiti come indiscutibili, quanto in realtà arbitrari?
Se, ferme le spese fisse e necessarie, per produrre un reddito di 100 devo spendere 70 e quindi guadagnare 30, qual’è la differenza con un fatturato da 50 e un monte spese da 20? Ve lo dico io: non c’è nessuna differenza. Anzi, la riduzione della circolazione di denaro, tempo, energia è, a parità di risultati, un utile ulteriore, perchè riduce i rischi (quelli legati legati ad esempio alla mobilità, alla finanza, agli imprevisti) liberando risorse, margini operativi, elasticità professionale.
Personalmente, sfrondando, mi sono scoperto ad essere come una macchina di grossa cilindrata che, onerata di zavorre o carichi superflui, aveva l’efficienza (cioè la redditività) di un’utilitaria ma i costi di una granturismo. In pratica, nessuna differenza positiva ma solo la necessità di alimentare, manutenere, assicurare, parcheggiare, riparare un mezzo ingombrante, complesso, scomodo da gestire.
Fuori dalla metafora: un presenzialismo d’altri tempi, reso oggi all’80% inutile dalla tecnologia e dalla telematica; un sistema di raccolta, archiviazione, mantenimento di idee e progetti reso oggi al 70% inutile dal radicale cambio degli orizzonti editoriali; un sistema di relazioni e di rapporti reso oggi al 50% inutile da mutate condizioni di età, di distribuzione “geopolitica” delle posizioni all’interno delle redazioni, di tiratura, di esigenze di prestigio, di capacità economica di quell’editore o di quella testata; un sistema di gestione del tempo legato ai meccanismi ora elencati e quindi polarizzato secondo schemi obsoleti; un sistema di gestione economica dell’attività legato infine a una scala di compensi e di rapporti costi/benefici divenuta insostenibile. Potrei andare avanti per parecchio.
Morale della favola: il primo strumento per recuperare reddito ed efficienza professionale è ridurre le spese occultamente superflue, che spesso si annidano proprio tra quelle ritenute indispensabili. Dove le spese superflue sono, impietosamente, tutte quelle che non aiutano a produrre reddito, o lo producono troppo lentamente, o lo producono ma richiedono un impegno, una mole di lavoro, una macchina organizzativa troppo assorbenti rispetto all’insieme delle altre attività da svolgere.
Dall’inizio dell’anno hanno chiuso i battenti 3/5 delle testate a cui collaboravo. Testate storiche e importanti. Una catastrofe, almeno in apparenza. Eppure, a conti fatti, i miei guadagni reali sono addirittura (sebbene di poco) aumentati. Ciò significa che, paradossalmente, prima ero io a “mantenere” quelle collaborazioni e non quelle collaborazioni a mantenere me.
Arrivare a queste conclusioni non è stato facile e rassegnarsi alla fine di un certo modo di lavorare nel quale ero professionalmente cresciuto ancora meno. Ma i risultati sono stupefacenti.
Sia chiaro: non credo di avere in mano la formula magica, nè la medicina per tutti. Ogni storia è un caso a sè, ha le sue dinamiche, i suoi percorsi. Eppure credo anche che certe problematiche e certe soluzioni siano comuni a molti professionisti. Basta non fingere di non vedere.