Con lei scompare non solo una protagonista assoluta della storia Brunello e del vino italiano, ma una personalità acuta e tracimante. Osservatrice attenta e curiosa, penna brillante, sapeva gestire fragilità e debolezze appoggiandosi agli oggetti e ai ricordi di una vita.

 

Nel mondo del vino, italiano e non, tutti conoscevano Francesca Colombini, mancata stanotte nella sua casa di Montalcino.

Con lei non solo la Fattoria dei Barbi e il Brunello perdono la loro “signora” per antonomasia (un appellativo che senza dubbio lusingava Francesca, ma le andava anche un po’ stretto per via di quell’accezione salottiera che non era certo – anzi – la sua sola dimensione). Perdono pure un testimone straordinario e lucidissimo della lunga stagione intercorsa tra la Toscana rurale e quella contemporanea, tra la campagna contadina dei mezzadri e quella imprenditoriale dei vignaioli. Un testimone che quel trapasso aveva avuto il privilegio di osservare dal di dentro e dal di fuori, dalla vita di città e dal silenzio della fattoria, con coinvolgimento e con distacco insieme, metabolizzandone la sostanza e gli effetti.

Tutto quell’accidentato cammino Francesca Colombini lo aveva perfettamente in mente e ben lo sapeva raccontare, tanto nelle occasioni pubbliche che il quelle private, agli amici raccolti attorno all’ospitale caminetto dei Podernovi, o nei suoi libri.

Sobria, misurata, elegante ma al tempo stesso acuta, franca, a volte perfino sferzante, era una donna di grande acume, un’osservatrice dei costumi.

Determinata e pragmatica, quando necessario, era al tempo stesso fatalista. E capace sia di un disincanto disarmante, sia di un’ironia pungente, ma mai scomposta, che sfoderava spesso, a riprova della sua capacità di cogliere i dettagli, ma con nonchalance.

Avendo avuto la fortuna di aver frequentato per decenni la sua casa e la sua famiglia, non starò qui a riepilogare i suoi meriti di imprenditrice illuminata, del suo contributo dato prima alla stagione eroica e poi alla fioritura del successo del Brunello di Montalcino, che visse in prima persona e di cui fu ambasciatrice. Memorabile (e perfettamente coerente al suo stile ricco di understatement) la massima “Il Brunello è come il tweed: non siamo mai stati di moda, ma sempre un grande classico”.

Preferisco ricordarla per le sue qualità private, i suoi umani dubbi e anche per qualche debolezza così inattesa in colei che, per il suo piglio, tutti tendevano a considerare una donna di ferro.

Ragioni inspiegabili, ma che mi hanno enormemente gratificato, avevano spinto Francesca Colombini a dimostrare una grande considerazione nei miei confronti. Al punto di affidarmi – sebbene ci siamo sempre dati del lei, segno di solido rispetto e amicizia, e fermo restando che non sarei mai riuscito a darle del tu – alcune sue confidenze, nonchè, a lungo, la consulenza per alcuni suoi scritti. Uno, nel 2008, fu il volume “Non solo vigne a Montalcino“, una sorta di Spoon River montalcinese, di cui scrissi la prefazione e curai la presentazione (la foto in apertura risale a quella circostanza). Ma soprattutto per la stesura del suo romanzo, rimasto purtroppo incompiuto.

Sì, perchè la signora Francesca era una penna brillante. Aveva immaginazione e idee, sapeva raccontarle e sapeva scriverle, attingendo a un patrimonio enorme di esperienza, di frequentazioni e di vita vissuta, oltre che osservata. Era perfettamente consapevole che i mutamenti sociali ed economici a cui aveva assistito nell’arco della sua vita erano lo sfondo ideale non solo per un saggio storico, ma appunto per un romanzo. Erano anzi, essi stessi, un romanzo.

Alla stesura di quest’opera si è dedicata per anni. E, per anni, ne abbiamo – come detto, mi aveva eletto anche suo amichevole consulente letterario – parlato, ripensato, riscritto. Ora mi resta il rimpianto di non aver fatto forse abbastanza per convincerla ad ultimarlo, quando eravamo proprio sul filo di lana e i nodi di quella storia sofferta, intricata, piena di cancellature e di rimaneggiamenti, stavano per sciogliersi.

Ne rammento alcuni passi folgoranti e gli scambi di telefonate e di messaggi, i cd e le stampe del manoscritto che mi arrivavano a casa per corriere e che io non riuscivo a non leggere subito, accantonando gli altri impegni.

Poi perse la spinta, forse la motivazione.

Francesca Colombini custodiva però, in silenzio, anche altre memorie. Di ogni oggetto della sua casa, di ogni libro a lei dedicato, ed erano tanti, conosceva alla perfezione storia, ubicazione, circostanze. Su ognuno aveva un aneddoto da raccontare. Era come se quelle cose fossero le sue fondamenta. E sapeva vivere. Amava la convivialità, gli arrosti di tordi tra pochi amici. Era una conversatrice amabile. Faceva domande e ascoltava con attenzione le risposte.

Spero mi perdonerete per questo ricordo un po’ emotivo, scritto a caldo stanotte, appena appresa la notizia. No, non è il solito coccodrillo preparato in anticipo. Per rispetto alla sua persona, non ne sarei stato capace, nemmeno se comandato.

Con un abbraccio e tante condoglianze a Donatella e Stefano.