Un rigurgito di noia mi risolleva dall’apatia blogghistica: si torna a parlare, ma il verbo giusto sarebbe ciarlare, della vexata quaestio. Parole in libertà e poche idee confuse a conferma che il fiume lento e limaccioso scorre verso la sua foce predeterminata.

Il sottosegretario all’editoria Giovanni Legnini, presidente della commissione per l’equo compenso, oggi rompe il lungo letargo feriale e se ne esce con la seguente affermazione (lancio Asca delle 14.18): “A breve convocherò la commissione per l’equo compenso durante la quale ascolterò le proposte dei vari soggetti chiamati in causa e cercherò di farne una sintesi. Finora abbiamo fatto più di una riunione e abbiamo raccolto molto materiale utile. Ascolterò i principi di equità: è un diritto dei giornalisti chiedere l’equo compenso ma è fondamentale tenere in piedi le aziende editoriali e non ammazzarle’. Così il sottosegretario all’editoria Giovanni Legnini ha risposto, a una domanda dell’Asca relativa alla questione dell’equo compenso giornalistico la cui legge è stata approvata lo scorso 4 dicembre 2012 e che però è ancora in attesa di essere attuata: con questa legge si vorrebbe garantire un’equa retribuzione per gli oltre 25mila giornalisti precari presenti in Italia e che guadagnano, nella maggior parte dei casi, meno di 5mila euro netti all’anno”.
Si sono dunque aperte le cateratte dei commenti indignati dei colleghi. E, a onor del vero, le dichiarazioni del sottosegretario sono parse ispirarsi al più limpido e infido cerchiobottismo. Salta all’occhio ad esempio il mistificante concetto secondo cui, passando da uno spicciolo a tre spiccioli, si “ammazzerebbero” gli editori. Il che equivale a dire (tutti gli addetti ai lavori sanno che l’incidenza delle collaborazioni giornalistiche sui costi generali di un giornale non superano il 5% del totale e che una pagina di quotidiano costa spesso, in tal senso, meno del toner consumato in un giorno dalla redazione facendo stampe inutili) che l’acquisto dell’acqua è la voce che manda a picco i bilanci delle famiglie.
Ma le sciocchezze si sprecano anche tra i commentatori.
La prima la pronuncia il collega dell’agenzia, affermando un’amenità di straordinaria portata che testimonia, se ce ne fosse il dubbio, quanto anche tra i giornalisti serpeggi una sostanziale ignoranza sulla questione. E nel nostro campo, è noto, l’ignoranza genera mostri. Il mostro è scrivere che “con questa legge si vorrebbe garantire un’equa retribuzione per gli oltre 25mila giornalisti precari presenti in Italia e che guadagnano, nella maggior parte dei casi, meno di 5mila euro netti all’anno”.
Bella cazzata.
Lo scopo della legge è garantire un equo compenso agli autonomi, cioè agli esterni alle redazioni, e non ai precari, che sono i titolari di un contratto a termine. E neppure la soglia dei 5mila euro c’entra nulla, visto che nè la legge la contempla, nè che il problema della sopravvivenza professionale sussiste solo per chi si colloca al di sotto della soglia medesima.
Verrebbe anzi da sottolineare che, mentre i colleghi che introitano meno dei fatidici 5mila euro devono per forza campare anche di altri redditi, perchè con 400 euro al mese non si vive nemmeno mangiando panini, lo zoccolo duro degli “inequamente compensati” è costituito proprio da quelli che, invece, avrebbero un volume di lavoro e una professionalità tale da poterne in qualche modo sopravvivere, ma hanno gambe e guadagni tagliati da coloro i quali, offrendosi al ribasso, in sostanza lavorano gratis e li mettono fuori mercato. Mentre laddove ci fosse un minimo inderogabile gli editori ragionevolmente potrebbero scegliere di dare i loro soldi non a chi chiede di meno, ma a chi a parità di costo sa fare meglio o di più.
Altra sciocchezza letta in rete: l’equo compenso dev’essere una variabile indipendente, a prescindere dallo stato di salute finanziaria dell’azienda editoriale. In pratica, c’è chi vorrebbe costringere anche le imprese che non hanno soldi a pagare più di quanto possono permettersi. Non sono d’accordo: sono dell’assai più radicale idea che, in un modo non utopico ma reale, chi ha le risorse per stare in piedi, vive, mentre chi non le ha, chiude. E quindi prepariamoci a dire addio, senza rimpianti, agli editori che sono bravissimi a farsi fare i giornali gratis (bella forza). E pure, siamo chiari, ai coglioni masochisti disposti a farglieli. Sempre gratis o a prezzo simbolico, s’intende. Prepariamoci inoltre ad accogliere con asciutta rassegnazione il fatto che se un’azienda chiude qualcuno va a spasso. Gli unici a non andare a spasso, perchè ci vanno già sebbene non se ne accorgano, sono quelli che scrivono gratuitamente o a prezzi simbolici.
Ma proseguiamo con lo sciocchezzaio pescato qua e là.
E’ ad esempio assai ondivaga l’idea che ognuno dei commentatori ha sulla sostanza dell’equo compenso. A quanto dovrebbe ammontare? Prevale il principio soggettivo: è equo quel compenso che a me (e quindi in base alle mie esigenze) appare tale. Evviva: si va da quelli che farebbero festa se un pezzo gli passasse dai 3 attuali a 10 ricchissimi euro a chi (quorumutopicamenteego) vagheggia remunerazioni minime in linea con il decoro di una prestazione professionale, quindi oltre i 50 euro ad articolo come base minima per trattare.
Di gran lunga prevalente è però il partito, beatamente babbeo, del “più soldi per tutti“, costituito da chi non capisce che più alto sarà l’equo compenso e più alto sarà il numero di chi si troverà espulso dal mercato (sempre che si possa definire mercato qualcosa fatto di volontariato, gratuità e elemosine). Traduzione: la gente non sa di cosa parla.
Ecco, detto questo e avendo anche oggi ingoiato l’ennesima dose omeopatica di rassegnazione sul futuro luminoso e progressivo del nostro mestiere, restiamo in attesa che il neoloquace ma per niente sprovveduto, anzi astuto Legnini convochi la commissione e la farsa possa continuare, con l’ulteriore intorbidimento concettuale della discussione di cui il tema è già caduto vittima da mesi.
Nel frattempo – un po’ per l’afa, un po’ per il disinteresse, un po’ perchè i tempi lenti rallentano anche i volonterosi – si è liquefatta, come temevo, pure la commissione ombra che avevo varato a primavera.
Mi pare la migliore dimostrazione che i disegni dilatori dei soliti noti stanno avendo pieno successo.
Anche perchè la flemma governativa porta acqua non solo al mulino degli editori: tra un annetto si vota e certe faccende non possono essere risolte prima e sottratte così alla fuffa spinta delle campagne elettorali.
Indovinate, ora: a quali elezioni alludo?