La vicenda sta facendo scalpore nell’ambiente: una collega Rai che nel 2002 realizzò un provocatorio hard-calendario benefico (firmato da Riccardo Schicchi, quello di Cicciolina) si è vista per questo revocare la nomina a commissario di esame dall’Ordine dei Giornalisti. La categoria si spacca tra tolleranti e scandalizzati. E voi?
Lo dico subito: sulle prime, senza approfondire, ho parteggiato per lei. Aver fatto un calendario senza veli non mi pare una gran colpa. Beata Maria Celeste De Martino, giornalista di Televideo Rai, oggi 45enne (qui il suo sito personale), che aveva il fisico per poterselo permettere, si potrebbe dire sorridendoci sopra e senza moraleggiare troppo.
Poi scopri che la collega è professionista dal 1992 e che quindi, forse, prima di offrirsi tanto generosamente all’obbiettivo poteva pensarci un po’ di più, consapevole comunque dei doveri scritti e non scritti che la obbliga(va)no a tutelare il decoro della professione.
Ma non era un calendario per carrozzieri, potrebbe obbiettare Maria Celeste (non nuova, si apprende, a iniziative eccentriche), bensì un almanacco di denuncia (chiamato “Libertà e patate“, un titolo che la dice lunga), volutamente forte e provocatorio certo, destinato però a sottolineare la sgradevolezza e l’assurdità dei mali del mondo: violenza, terrorismo, guerra, crudeltà e l’immancabile mercificazione del corpo femminile. Ne furono vendute 3.000 copie e il ricavato fu devoluto in beneficenza.
Un nudo artistico, insomma. Un nudo sociale, anzi. E l’ago della tua personale bilancia di giudizio torna a pendere dalla parte della disinibita e vivace De Martino, un tipo con le idee chiare, creativo e decisamente estroverso.
Possibile, ti chiedi, che all’Ordine siano davvero così bacchettoni?
Breve ricerca su internet e trovi il calendario intero, in tutto il suo “splendore”: eccolo qui.
Forte? Decisamente sì. Anche qualcosa di più.
E allora qualche dubbio ti torna. Certo, non c’è il commercio, non c’è l’esibizionismo gratuito (nel senso che non è gratuito, ma sull’esibizionismo non si discute). Però se, come giornalista, per preservare la credibilità della categoria mi è vietato, ad esempio, prestare il mio viso, il mio nome e il mio corpo alla pubblicità, mi è lecito usarli in un modo tanto esplicito da esondare, (s)cavalcando più o meno maliziosamente i limiti di ciò che una volta si chiamava comune senso del pudore, sebbene per nobili scopi?
Il dibattito è aperto. Dite la vostra!
PS: la foto che ho scelto per aprire questo post è di gran lunga la più soft della serie…