di FEDERICO FORMIGNANI
Continua il viaggio attraverso il gergo della malavita meneghina: oggi tocca al processo, alla gattabuia e agli “oggetti del desiderio” per il furto dei quali si finiva dentro.
Per la malavita milanese di un tempo, definita più volte “romantica” per la diffusa credenza di ritenere i tempi passati migliori di quelli che si vivono, c’è un luogo che precede di poco la galera: vale a dire il Palazzo di Giustizia. Un tempo veniva definito albergh di dò campann (albergo delle due campane) perché due, sempre, erano e sono le versioni dei fatti che vengono dibattuti; bisogna ammettere che la definizione è davvero pertinente! Nelle aule di giustizia, il dibattito penale è detto complòtt (complotto) ed è visto come un atto di congiura a danno del povero malandrino! L’imputato, seduto in bella mostra sulla perltrera (banco degli imputati), parola questa che in dialetto milanese sta per “mobile, cassettone” sul quale vengono esposti ninnoli, vasi, oggetti di peltro, da cui il nome. In questa fase l’imputato ascolta le delibere dell’infido scorpion (scorpione, ossia il giudice) che, letto il palpée (atto giudiziario), vocabolo proveniente dal francese papier (carta), gli commina alcuni trentini di galera. Un “trentino” è un mese; il cocumber (cetrioolo) vale invece a un intero anno di prigione.
Ed eccolo, il malvivente, nell’ormai familiare prigione. Sono diversi i vocaboli che nel gergo della malavita hanno il significato di prigione: da buiosa di origine furbesca al pari di casanza, a teater (teatro); da bàita (casa, abituro) a pollée (pollaio); da bus negher (buco nero) a sarasu, letteralmente luogo chiuso, senza luce. Ve ne sono altri ancora, curiosi la loro parte, caduti in disuso. Continua ad essere invece usata, anche se meno d’una volta, l’espressione al numer duu (al numero due), come riferimento al carcere milanese di San Vittore, situato al numero due di piazza Filangieri.
Il mondo del detenuto, chiamato una volta el paga (colui che paga il proprio debito verso la società) è semplice, addirittura elementare nei suoi bisogni. Anzitutto il carcerato sogna de vess in bandera (latitante); costretto alla reclusione, in mancanza di un cobbi (letto) decente, dorme sul ballìn (saccone, pagliericcio) e non di rado si riempie di grisaldi (pidocchi) e di pigrett (cimici). Usa la bombola (bugliolo) per le sue necessità corporali e si sfama con una galba (minestra) acquosa, unita a qualche bufettosa (pagnotta carceraria). Le distrazioni sessuali sono affidate all’album di meravilli (album delle meraviglie), collage erotico che se non altro, passato di mano in mano, consente alla fantasia di affrontare avventure che la detenzione impedisce. I contatti con l’esterno sono affidati alle palome (lettere) che il detenuto fa avere ai malviventi rimasti fuori, per comunicare i suoi piani d’evasione o le sue richieste d’altro genere. In carcere, con i compagni, sia direttamente sia per mezzo dell’alfabeto interno – i colpi sulle pareti ripetuti: un colpo per la lettera “a”, due per la “b”, tre per la “c” e così via – il carcerato parla del passato, dei ricordi, ma soprattutto dei progetti futuri che coinvolgono lui e la sua banda, una volta che avrà riacquistato la libertà.
Fuori dalle quattro fatidiche mura, il primo pensiero sarà per la grimetta (vecchia madre) e per il ciospo (padre); poi è il turno, a lungo sognato durante la reclusione, della bramosa o smilza (amante). La bramosa si spiega da sé; la smilza è un termine che risale al primo Ottocento, ricordato anche da Francesco Cherubini nel suo notissimo Vocabolario. Ma, in carcere, il locch non parla solo delle persone. Con i compagni di pena discute anche del dopo: di quando cioè con i compari potrà riprendere il “lavoro”, ossia organizzare furti, rapine, rubare.
Oggetto del desiderio sopra tutti gli altri sono i preziosi. Tra i metalli nobili c’è l’argento, detto biancumm, voce rintracciata dal Cherubini, mentre il poeta milanese Carl’Antonio Tanzi (1710-1762) riportava la voce stracchin (formaggio lombardo) usata dai malavitosi del tempo. Dopo l’argento, l’oro, chiamato formaj (formaggio, naturalmente stagionato, d’un bel colore paglierino) sempre negli anni del Tanzi; l’oro veniva definito anche, semplicemente, giald (giallo). Il veder (vetro) è il diamante, il brillante. Possiamo terminare con i vari nomi con i quali veniva chiamato il denaro contante, anch’esso oggetto del desiderio dei malfattori. Ecco i vocaboli che indicano i soldi: pessitt (pescetti), ciovitt (chiodini), piorli, pioldi, ghelter, farina, mantecca, tolitt (pezzetti di latta), ghej, pelter (peltro, oggetti o altro), marsuppi (marsupio, borsa…piena di soldi!) e altre due definizioni dei fantasiosi malandrini: quint element (quinto elemento) e bàlsem de medegà i piagh (balsamo per medicare le piaghe)! Per finire: i carton (cartoni) è la parola che indica la carta moneta.