Ovverosia le leccornie nazionali e l’american sounding, l’altro lato dell’italian sounding. Nella società del cibo globale l’assuefazione agli orrori linguistici porta ormai a confondere le pronunce giuste con quelle sbagliate. E su FB c’è un video che fa di ciò una parodia esilarante.

 

In terza media una mia compagna di classe se ne uscì con l’idea del teorema di Archimede Pitagorico: assuefatta alle frequentazioni fumettistiche, si era convinta che il personaggio disneyano dalle forme gallinacee e che in testa si metteva il cappello pensatore fosse esistito davvero. Non era destinata a restare sola, visto che un celebre quotidiano romano incappò, qualche decennio dopo, nel medesimo infortunio.
Siamo del resto circondati da gente che, scimmiottando termini di cui non conosce origine e significato, li pronuncia storpiandoli come sente fare in tv, spesso trasformando la latina favella in una moderna versione dell’anglobecero: plas anzichè plus, midia anzichè media, giunior anzichè junior.
Intendiamoci, noi italiani trattiamo allo stesso modo, cioè male, anche le lingue straniere, pronunciando fesòn per fashion, cevingùm per chewing gum e bròder per brother.
Ci sono però limiti che ritenevo invalicabili e che sono rappresentati da oggetti, prodotti, nomi-simbolo di determinate culture, paesi e tradizioni. Ad esempio, credo nessuno dica New York in modo diverso da New York. Ed in effetti non ho mai sentito dire “vado in vacanza a Nèviork“.
Eppure più il tempo passa e più ci si accorge che è sempre meno così.
La globalizzazione ha investito trasversalmente ogni cosa rendendo tutto, se non familiare, apparentemente tale. Così la gente, senza farsi troppe remore, anzichè chiedere o imparare scrive, legge e scandisce le parole come capita. E siccome moltissimi sbagliano, chi li ascolta si convince che la lectio giusta sia proprio quella, con il risultato di creare involontariamente ma irresistibilmente una sorta di tragicomica coinè planetaria che si esprime per fonemi vaghi, la cui corretta pronuncia e perfino la corretta scrittura tendono a perdersi.
I nomi dei cibi e dei prodotti italiani, famosissimi nel mondo, sono tra le prime vittime di questa degenerazione linguistica.
Ed è ovvio che tra gli interstizi di tale sgrammaticatura collettiva i furbetti trovino praterie per le loro truffe: pensiamo all’ormai proverbiale equivoco parmigiano/parmesan, che ha fruttato al mercato mondiale del formaggio l’invasione, a scapito dei nostri produttori, di bastimenti di falso grana allegramente commercializzato come italiano sui banconi alimentari di tutti i continenti.
Proprio su FB mi è caduto l’occhio su un esilarante filmato che, parodisticamente, denuncia tutto ciò, cercando di dimostrare come nessuna dotta o corretta pronuncia o scrittura del nome di un cibo italiano potranno mai scalzare quelle errate, se la comunità è convinta, in forza dell’abitudine, del contrario.
Godevelo qui, fa scompisciare.