Si dice che in Italia ci siano un milione di immigrati e che presto parleremo arabo, o africano, o cinese, o una koinè che mescola tutte queste lingue. Chissà. Quel che è certo è che, se ormai si può prenotare un ristorante di lusso solo parlando in inglese, siamo messi male davvero…
Vista Lampedusa? No: Firenze, Siena, San Gimignano, Chianti.
Traffico di barconi? Macchè: Mercedes, Bmw, Audy, suv rombanti.
Insomma sei a casa tua e vorresti prenotare una cena con la moglie in un bel locale di charme nel cuore della tua regione, la Toscana
Chiami.
Ti risponde un disco direttamente in inglese: così stretto, fluente, perfetto e ben pronunciato che, anche per la sorpresa, lì per lì non capisci.
Ho sbagliato numero?
Rifai il numero e il disco scatta di nuovo: “Welcome, thanks for calling. To reserve a room please dial 1, to reserve a dinner please dial 2, to enjoy our facilities, acquapark and pools, dial 3“.
Altro attimo di smarrimento.
Digito 1.
Risponde un altro disco, sempre in inglese, che letteralmente mi comunica: “To reserve a table in english, dial 1; to reverve in italian, dial 2“.
Reserve in italian?!? E che vuol dire? Confuso, mi guardo intorno: dalla finestra vedo il mio giardino, riconosco la campagna di casa mia, la tv trasmette i programmi in italiano.
Non c’è dubbio, siamo in Italia.
Come anglosuggerito, digito 2.
“Hello, how can I help you?“, mi interroga un oxfordiano dall’altra parte del filo (ma almeno stavolta è un uomo in carne ed ossa).
Io (tra l’imbarazzato e l’incazzato): “Hello, I wish reserve a table for two people for tomorrow night, is it possible?”
Lui: “Yes of course, let me give you the right extension“. Extension? Che extension? Ci sarà mica il ghetto degli italiani?
Allibito, ascolto alcuni secondi di musichetta, poi mi risponde la sorella di Oliver Hardy, versione Ollio.
Lei: “Sììì, buonaseeeva, cevto posso visevvave pev lei un tavòlo domani, a quale ova?”
Io (gelido e sul punto di rinunciare): “Per le otto“.
Lei: “Ok, può lasciavmi suo nome?”
Io: Tesi, Stefano Tesi“.
Lei: “Daisy? Grazie mister Daisy”.
Io (furibondo): “No, mi chiamo Tesi, T.E.S.I (spelling)”.
Lei. “Ok, aspettiamo pev lei domani, gvazie mister Daisy“.
Passo alcuni minuti di sincero sbigottimento, atterrito. Poi ci rimugino. Penso. Mi adiro. “Magari poi mi toccherà perfino ordinare in inglese“, vagheggio al colmo del risentimento.
D’istinto riprendo la cornetta per disdire il tavolo.
Breve attesa e risponde il solito disco, segue la solita serie di numeri, infine la solita “extension”.
Stavolta mi risponde però la sorella di Stan Laurel e non in versione Stanlio.
Io: “Buonasera, mi chiamo Tesi, ho appena prenotato un tavolo per domani sera ma dovrei disdirlo, ho avuto un contrattempo“.
Lei: “Pardon?”
Io (mordendomi la lingua): “Vorrei disdire una prenotazione“.
Lei: “Sorry, but I can’t speak italian, could you please speak english?“.
Sono ancora lì che mi aspettano. Tra Siena, Firenze e Pisa.
Pazienza se mi malediranno nella lingua di Shakespeare.