Il panel sul precariato giornalistico nel web appena tenutosi al Dig.it fiorentino è stato di una noia mortale. Colpa di argomenti scoraggianti e della stupefacente pertinacia, da parte di molti, di non voler guardare in faccia la realtà.
Cari amici,
sono appena uscito dal panel che avete organizzato a Firenze su “i precari e la rete” nell’ambito di Dig.it (qui), il primo convegno mai tenuto in Italia sul giornalismo digitale.
Sono appena uscito, dicevo. Annoiato e desolato.
Non mi succede spesso.
La maggior parte delle volte esco da questi appuntamenti con uno stato d’animo diverso: contrariato magari, ma vivo.
Oggi no. Ho resistito fino alla fine, sì, ma solo per un moto di cortesia. E senza intervenire. Non c’era nulla da dire, infatti, solo da prendere atto.
Sia chiaro: mi conoscete, con alcuni di voi ho rapporti di stima e di cordialità quindi, come sempre, nulla di personale.
Consentitemi tuttavia, proprio in virtù di questo, di esprimere con sincerità il mio sconcerto e il mio disagio per le molte, stupefacenti banalità che ho sentito oggi. E i numerosi abbagli concettuali che ho dovuto riscontrare.
Si è detto, giustamente, che la professione non è un hobby, sottintendendo quindi, altrettanto giustamente, che il lavoro giornalistico va pagato. Sì, ma pagato quanto? In altri termini, qual è la scriminante tra hobby e lavoro?
No, perchè se la scriminante sono i 3 o i 6 o i 9 euro a pezzo che ho sentito menzionare, allora anch’io, che gioco a calcetto e ho uno sponsor che mi “paga” le maglie, mi posso a buon diritto ritenere un semiprofessionista del pallone. O se la scriminante è la conoscenza minima del mondo professionale al quale pretendo di appartenere, fa un po’ specie sentire chiamare “stipendio” il compenso di un collaboratore esterno, che dello stipendio è esattamente il contrario: non ne ha infatti, per definizione, nè la costanza, nè la certezza, nè la funzione, nè la natura giuridica. Sorvolo sul fatto che un collaboratore non è, come dovrebbe essere lampante, un precario.
Ne ho francamente le scatole piene delle geremiadi di chi prima accetta certe condizioni e poi se ne lamenta. Nessuno è obbligato ad accettarle, infatti. Ma se uno, volontariamente, le sottoscrive, che ha da rivendicare, quando l’eventuale perdita del “lavoro” (virgolette d’obbligo) rappresenta poi, economicamente, più un guadagno che un danno?
Invece no: si recita sempre la parte della povera vittima al cospetto di un padrone cattivo. Facile, bello e d’effetto. Ma è una vittima chi accetta volontariamente di fare qualcosa che esplicitamente gli è stato proposto? Non è molto più facile e legittimo dire di no alle offerte ritenute incongrue e guardare oltre?
Ci si lamenta anche degli annunci di lavoro farlocchi. Ma farlocchi dove? Se c’è scritto, nero su bianco, che le prestazioni non sono pagate, perchè c’è chi ci perde tempo o culla aspettative non coronabili? Mica è una questione nominalistica (annunci “di lavoro”), è una questione di sostanza. Quando un amico mi chiede un favore, non si aspetta che gli presenti il conto.
Boh, che noia: sempre le stesse cose, sia che si parli di web, tv, carta stampata.
Possibile che a nessuno venga il dubbio che qualcosa che non ti fa campare non possa essere chiamato lavoro e che, quindi, se la si fa lo stesso, è perchè lo si vuole e basta? Mica l’ha ordinato il dottore di fare il giornalista indipendente. Indipendente vuol dire autonomo, che cioè si accolla i rischi legati alla sua professione, inclusa la rottura dei rapporti col committente, i mancati pagamenti, i siluramenti senza preavviso, i cambi di cavallo in corsa. Nessuno, si sa da sempre e l’esperienza lo dimostra, sopravvive collaborando con un solo giornale, da esterno. E se lo fa, vuol dire che è un dipendente al nero, non un autonomo. Ciò è vero oggi come lo era nel 1972. Se uno si può permettere di andare avanti non i due o tre anni necessari a fare esperienza e a imparare, ma dieci, in questo modo, vuol dire che può contare su altri mezzi. Dunque delle due l’una: o accetta di dichiarare di fare il giornalista come secondo lavoro, oppure cambia mestiere e continua a coltivare l’hobby del giornalismo.
Dov’è insomma lo sfruttamento in chi accetta di farsi sfruttare? Dov’è, soprattutto, se il corrispettivo non è un pagamento basso, perfino bassissimo, che giustificherebbe l’accusa di sfruttamento, ma una somma talmente simbolica da rappresentare al massimo un rimborso pro forma delle spese (come possono essere i 3 euro pagati per un articolo)? Non c’è corrispettivo, quindi non c’è lavoro.
E per rompere il sistema, basterebbe comunque dire di no. Ma nessuno lo dice. Tutti vogliono continuare, contro ogni logica ed evidenza. Arrabattandosi, ammazzandosi di fatica senza alcuna prospettiva.
Per questo, per la prima volta e con non poco rammarico, stasera mi sono chiesto allora che cosa ha a che fare un pur modesto ma consapevole giornalista professionale, come me, con una galassia di volonterosi, simpatici, spesso bravissimi coltivatori di sogni che si illudono di lavorare facendo beneficenza a un editore. E che per primi di accaniscono contro se stessi, mancandosi di rispetto da soli e vendendo per due soldi il loro tempo e il loro talento.
Non sono gli editori che li umiliano, ma sono loro che si autoumiliano e umiliano la professione.
Un’ultima cosa: eravamo a Firenze e in platea spiccava il vuoto pneumatico dei vostri colleghi toscani. Un dettaglio sgradevole che Francesca Ferrara ha giustamente sottolineato. Ma anche, forse, un segnale di scollamento, se non una presa di distanza. Correnti, venti contrari?
Sicuro, caro Ciro Pellegrino, che la battaglia sia proprio questa, allora? E sicuro, Maurizio Bekar, che per il sindacato la prima emergenza non sia piuttosto quella di separare i professionali dai secondolavoristi, invece di tentare di abbracciare le cause di tutti, comprese quelle perdute in partenza?
Sempre a disposizione per qualsiasi discussione.
Stefano.