“Il nostro è un mestiere in estinzione?”, mi ha chiesto oggi una collega. “Penso di sì”, le ho risposto. “Facciamo qualcosa”, ha replicato lei. Già ma cosa? Perchè forse non è la professione ad essere obsoleta, ma è l’informazione ad essere andata oltre se stessa. E ha bisogno di alacri operai, non di bravi artigiani.
Quand’ero bambino, all’ora di pranzo i negozianti chiudevano il bandone, gli impiegati tornavano a casa, il mondo si fermava e le strade si riempivano dei profumi e dei rumori delle pietanze al fuoco. L’odore del sugo e il tintinnare delle stoviglie nell’aria aveva lo stesso significato, la stessa funzione della sirena in fabbrica e della campanella a scuola: break, si va a tavola. Dove a tavola voleva dire desco familiare, babbo, mamma e figli attorno al tavolino, la minestra nella zuppiera, eccetera. La tv era spenta, perché stava in salotto.
Nei libri per bambini dell’epoca, il futuro era rappresentato da gente vestita più o meno con tute spaziali, che abitava in edifici avveniristici, guidava auto senza ruote e a mezzogiorno mangiava, invece della normale pastasciutta, pillole liofilizzate al gusto di pollo arrosto e strane pappette da astronauti.
L’epoca in cui si sarebbe passati al cibo industriale e al ticket restaurant, con l’oblio dei sapori naturali, della stagionalità e dei riti domestici era già cominciata. Ma ancora non ce n’eravamo accorti.
In quel tempo, come dicono le scritture, la convergenza non esisteva. Tutto era divergente: la vacanza divergeva dal lavoro, la carriera dalla famiglia, la tv dal cinema, la lettura dal gioco. O facevi una cosa o ne facevi un’altra. Se stavi a casa con la moglie rinunciavi alla partita di calcetto o a carte con gli amici.
Che io ricordi, lo slogan della convergenza l’ha tirato fuori per la prima volta un noto gestore telefonico a metà degli anni ’90 a proposito di telefonia tradizionale e cellulari. Prima, erano mondi distinti. Dopo furono unificati sotto un’unica utenza e un’unica bolletta. E tutto si è mosso in quella direzione.
Ora, con internet, il mondo è infatti convergente. Se non addirittura coincidente, con conseguente perdita dei confini tra l’una e l’altra cosa. Si può tranquillamente lavorare in vacanza restando convinti di essere davvero in ferie, la musica si ascolta guardandola in video, la tv si vede navigando, i film si scaricano sul pc, la cena si fa guidando al McDrive, a poker si gioca a distanza e on line, gli eventi sportivi si seguono in diretta sul web e se si va allo stadio è per seguire la moglie tifosa, quella che, una volta, alla domenica veniva “lasciata sempre sola”.
Dalla discontinuità del tempo si è passati alla sua continuità. Alla sua ottimizzazione, che spesso significa fare più cose contemporaneamente, senza che nessuna sia più se stessa.
Il discorso mi è tornato in mente conversando oggi – via web, è ovvio – con una collega che si interrogava sulla progressiva inutilità della funzione, e quindi del lavoro, del giornalista. Una professione divenuta sempre più fungibile, superata a destra dalle notizie in diretta, a sinistra dalla tecnologia che non solo le veicola, ma le crea. Si può definire giornalista un assemblatore di notizie prese in rete e, magari, scelte da un algoritmo in base alle preferenze dei lettori in quel preciso momento? Ed è molto lontana l’epoca del giornalista-robot (qui), sostituito fisicamente dal solito algoritmo in grado di mettere insieme, aggregandoli in un articolo, i dati raccolti nel grande calderone della rete?
“Secondo te si può ancora fare qualcosa?”, mi chiedeva.
Lì per lì non ho saputo risponderle. Si può ancora chiamare meccanico, del resto, un tipo in camice candido che collegando la vostra auto a un computer è in grado di diagnosticare al volo il guasto, di individuare il pezzo da sostituire e di ordinarlo, affidandone il montaggio a un mero esecutore? Che fine ha fatto quel gran genio del mio amico, con le mani sporche d’olio e che con cacciavite in mano faceva miracoli, consentendoci di ripartire alla bell’e meglio al volante del nostro macicino? Ecco, allo stesso modo vorrei sapere se si può ancora chiamare giornalista uno che, senza alcun talento, né intuito, né acume, né passione, né curiosità, fa il “controllo qualità” di notizie preconfezionate. Cioè ciò che si richiede oggi a un giornalista.
Del resto i mestieri si estinguono con l’evolversi della società e forse ora tocca a noi, come fu per i cocchieri, i maniscalchi, i carrai, gli acquaioli, gli arrotini e gli artigiani in genere.
Giorni orsono, un altro collega mi diceva che oggi come oggi, in Libia, un passaggio in taxi da Tripoli a Misurata, circa 250 km, costa intorno ai 2000 dollari. “Quanto mi costerebbe andare laggiù per un reportage? E a quanto dovrei vendere i miei servizi, visto che il prezzo di mercato di una foto da quella zona è di appena 40 euro?”. Poi si scopre anche che certi assicuratissimi, finanziatissimi, pagatissimi inviati dei grandi giornali e tg internazionali scopiazzano le loro corrispondenze dal web.
E anche i discorsi dei miei amici passano in secondo piano.